La riproduzione del possibile

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Docente alla Duke University, Kathi Weeks lavora nel dipartimento dei Women’s Studies. Femminista, autrice del volume Constituting Feminist Subjects, per molto tempo si è occupata anche di ciò che negli Stati Uniti vengono chiamati gli utopian studies, cioè quel settore di analisi dell’immaginario collettivo che spazia dalla storia orale alla fantascienza, dalla filosofia alle pratiche politiche dei movimenti sociali. Kathi Weeks ha recentemente mandato alle stampe il volume The Problem with Work: Feminism, Marxism, Antiwork Politics, and Postwork Imaginaries (Duke University Press), saggio in cui analizza la divisione sessuale del lavoro, sviluppando al contempo una critica dell’etica del lavoro. Argomenti che sono stati al centro del seminario che ha tenuto alla «Venice International University». Ed è proprio a Venezia che è avvenuta l’intervista.
Qual è il problema con il lavoro, da cui parte il suo ultimo libro?
I problemi sono tanti. Se ne possono citare almeno tre. Innanzitutto il lavoro monopolizza la nostra vita. Spendiamo nel lavoro una gran quantità  di tempo ed energie: per preparare e organizzare il lavoro, per renderlo sicuro e per recuperare le energie spese. Noi non lavoriamo, diventiamo lavoro! Il secondo problema riguarda la capacità  del lavoro di dominare il nostro immaginario politico e sociale. Al lavoro sono legati i diritti e le opportunità  di riconoscimento sociale, il modo in cui sviluppiamo la nostra identità , accediamo alle reti sociali e costruiamo la socialità . Infine il lavoro salariato è un problema perché non funziona come come sistema di redistribuzione del reddito e dell’inclusione sociale. 
La critica femminista ha evidenziato che ci sono molte forme di produttività  sociale non legate al lavoro salariato. Infene, c’è il problema dei problemi: l’etica del lavoro di weberiana memoria. Oggi quest’etica è ancora più centrale perché nelle forme di produzione postfordista c’è un enorme bisogno di uomini e donne disposte ad investire soggettivamente e a identificarsi nel lavoro. Nel sistema di fabbrica esisteva una precisa disciplina del lavoro. Le forme di lavoro che costellano oggi l’universo postfordista non consentono analoghi modelli di controllo. L’autodisciplina, e dunque una spiccata etica del lavoro, diventa l’asse portante della produzione di merci.
Nel tuo libro ci sono continui rimandi, anche critici, al femminismo marxista degli anni Settanta: in che termini queste analisi hanno influenzato la tua riflessione?
Mi hanno soprattutto ispirato le elaborazioni del gruppo «Salario al lavoro domestico», in particolare il modo in cui hanno incorporato il rifiuto del lavoro nel progetto femminista per il riconoscimento della dimensione produttiva del lavoro domestico, una specificità  forte anche all’interno del femminismo marxista degli anni Settanta. Sono state donne che hanno innanzitutto riconosciuto il lavoro domestico come lavoro socialmente necessario senza il quale l’economia non potrebbe funzionare. Da qui la complementarietà  tra lavoro produttivo e lavoro riproduttivo. Oggi che produzione e riproduzione si sovrappongono, questi termini non funzionano più in modo pieno, ma in quegli anni hanno reso possibile la la critica e la rimessa in discussione delle responsabilità  delle donne rispetto al lavoro di riproduzione. In questo senso, hanno produttivamente declinato il discorso sul lavoro domestico come rifiuto di una dimensione moralizzante del lavoro inteso come impegno etico e come lavoro d’amore all’interno della famiglia. Così, mentre si impegnavano a rendere visibile il lavoro di riproduzione come immediatamente produttivo, intendevano al contempo combatterlo. Un progetto molto complicato e a tratti anche contradditorio, che resta ancora di estrema attualità .
Perché contraddittorio?
Il problema è come riconoscere il lavoro domestico come lavoro socialmente necessario e ripartirlo equamente senza doverlo sommare a quello salariato. Il tempo di vita non può esaurirsi tra lavoro domestico e lavoro salariato. Né che il tempo liberato dall’ambito domestico possa diventare tempo per il lavoro salariato o viceversa. Ciononostante, alcuni discorsi femministi sono caduti in questa contraddizione e hanno riprodotto l’etica del lavoro e della famiglia, tralasciando il fatto che il lavoro domestico o salariato domina la nostra vita e che va dunque combattuto. Tuttavia, se è chiaro cosa si intende per rifiuto del lavoro salariato, cosa vuol dire rifiutare il lavoro domestico? Vuol dire abbandonare i propri impegni di cura? Non credo sia possibile. Piuttosto credo si tratti di capire come riorganizzare la cura e ridistribuirla in modo che non occupi completamente la vita delle persone. 
Ma oggi che produzione e riproduzione tendono a coincidere, riorganizzare la cura vuol dire anche in qualche misura riorganizzare la produzione. Come possiamo ripensare questo rapporto? 
Questa è parte della difficoltà  incontrate dal gruppo sul «Salario al lavoro domestico». Rivendicare un salario per le casalinghe è anche una debolezza. Negli anni Settanta, le stesse femministe sottolineavano che le donne non si identificano, almeno non tutte, con la figura della casalinga. Inoltre, nominando il lavoro domestico come lavoro di donne c’era il rischio di rafforzare l’associazione tra genere e lavoro domestico. Oggi la domanda di un salario per il lavoro domestico andrebbe rimpiazzata con una domanda di basic income che è neutro rispetto al genere e non attiene alla mera dimensione domestica, dunque una rivendicazione ancora più potente perché riguarda tutte e tutti. Resta però il problema di come rendere visibile il lavoro domestico svolto dalle donne. Si tratta di trovare il modo per conciliare l’analisi femminista con la domanda di basic income: in questo modo diventa possibile porre la vita al centro della vita associata. Detto altrimenti, va riconosciuto che i processi di valorizzazione poggiano su forme di socialità  e temporalità  che si trovano al di fuori di tempi, spazi e pratiche del lavoro salariato. Ed è da qui che oggi passa la linea del conflitto.
Possiamo allora dire che fuori dal lavoro salariato la linea del conflitto passa per la famiglia?
Nel libro, discutendo le lotte per la riduzione dell’orario di lavoro, ho provato a immaginare un’alternativa all’idea di ridurre l’orario lavorativo per avere «più tempo per la famiglia». Negli Stati Uniti, ma anche qui in Europa, il movimento per la giornata lavorativa chiedeva «otto ore per lavorare, otto ore per riposare e otto ore per quello che vogliamo». Io sono interessata al «quello che vogliamo», perché è tempo e spazio del possibile: del lavoro cooperativo, delle relazioni fuori dal lavoro salariato e dalla famiglia intesa come istituzione sociale che regola il lavoro domestico gratuito e le relazioni di potere. Insomma, ciò di cui abbiamo bisogno è di un oltre la famiglia e il lavoro salariato: lo spazio, cioè, in cui inventare altre forme e possibilità  di relazioni sociali che mettono profondamente a critica l’idea di lavoro quale fondamento razionale dell’accumulazione capitalistica.
Tra produzione e riproduzione, dunque, prende forma uno spazio diciamo «altro» che si declina come ciò che definisci «un’idea espansiva della riproduzione sociale»: puoi approfondire?
La dimensione espansiva della riproduzione sociale è una categoria che utilizzo per proporre in modo differente l’antagonismo tra accumulazione capitalistica e riproduzione sociale. Invece di pensare il lavoro salariato da una parte e la famiglia e il lavoro domestico gratuito dall’altra, riprendendo il lavoro delle femministe degli anni Settanta, rifletto sui conflitti che intercorrono tra questi due ambiti. Soffermarsi solo sul lavoro domestico e ragionare esclusivamente di riproduzione offre una soluzione al problema che non convince. Diventa l’idea di servizi che possono essere acquistati: un processo di mercificazione della cura che funziona per alcuni – chi può acquistare – ma non per tutti. Credo invece che la critica all’organizzazione del lavoro domestico debba puntare alla costruzione di nuove forme di relazione e di cooperazione sociale dentro e fuori la famiglia.
Credi che la crisi possa essere un’occasione ulteriore per la costruzione di queste nuove forme di relazione?
Negli Stati Uniti la crisi ha favorito lo sviluppo di nuove modalità  di consumo, ma ciò ha a che fare più con la possibilità  di gestire diversamente il tuo tempo che non con il lavoro e la sua organizzazione. La crisi potrebbe senz’altro essere una possibilità  per ripensare in modo più cooperativo la propria vita ma è soprattutto la lotta per il basic income che mi pare assuma una particolare connotazione come alternativa e spazio di possibilità  di una trasformazione radicale.


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S i possono leggere questi Racconti dell’errore di Alberto Asor Rosa (Einaudi, pp. 215 19,50) dimenticando il loro autore, il critico, l’intellettuale, il professore, l’ideologo, l’organizzatore culturale, il politico, l’uomo di potere, dagli anni ruggenti e iconoclasti di Scrittori e popolo, quando Asor Rosa era una delle teste d’uovo dell’operaismo italiano, alla direzione di «Rinascita» o della «Letteratura italiana Einaudi»? Bisognerebbe, pare.

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