Le ombre di una storia, dai «senza potere» al potere

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Sarebbe far torto alla verità  storica negare la sua partecipazione alla Primavera di Praga, ma egualmente errato sarebbe pensare che si trattasse di partecipazione a fianco dei rinnovatori del Partito comunista di Cecoslovacchia. Havel girò, alla vigilia dei rivolgimenti del gennaio 1968, per gli Stati Uniti, esprimendo la sua ammirazione per la contestazione studentesca, allora fortemente impegnata contro la guerra in Vietnam. In patria, il drammaturgo poco piຠche trentenne (era nato a Praga nel 1936) scriveva articoli per una rivista letteraria che rivendicava riforme in grado di far tornare la Cecoslovacchia all’epoca dei governi borghesi e antipopolari. Quando i carri armati sovietici soffocarono la Primavera Havel si schierò decisamente, pagando anche di persona con le persecuzioni e il carcere, contro gli invasori e il regime da loro instaurato. Un atteggiamento che accrebbe la notorietà  di cui già  godeva nel mondo occidentale per le sue opere letterarie. Sul finire del 1976, dopo che il Parlamento di Praga aveva legalmente sanzionato l’adesione del paese all’Accordo finale di Helsinki alcuni personaggi stilarono una Dichiarazione, con la quale di fatto nacque Charta 77, in calce alla quale si cominciarono a raccogliere le firme dei cittadini. Quel documento era stato scritto da un ex alto dirigente comunista, Zdenek Mlynar, e i primi tre portavoce furono oltre allo scrittore Vaclav Havel, il filosofo Jan Patocka e l’ex ministro degli Esteri Jiri Hajek. La reazione del potere fu violenta, ma non piegò la resistenza degli iniziatori: presto nacquero altri movimenti e si diffusero la letteratura, la musica e la pittura sgradite agli occupanti sovietici e ai governanti che avevano insediato al potere. Nell’autunno del 1989 , dopo i rivolgimenti in Polonia e in Ungheria, anche gli oppositori cecoslovacchi chiesero a gran voce mutamenti nella struttura politica del paese. Nelle imponenti manifestazioni popolari di piazza Venceslao e nella piana di Letna a Praga risuonò piຠvolte il grido «Dubcek na Hrad » (alla Presidenza della repubblica). Nel timore che si potesse assistere alla ripetizione del ’68, gli oppositori borghesi, largamente appoggiati dai socialdemocratici tedesco-occidentali e austriaci, imposero la scelta dello slovacco Marian Calfa a capo del governo e rifiutarono ogni ipotesi di elezione diretta del presidente della Repubblica. Alla fine dell’anno Havel e Dubcek furono eletti capo dello Stato e presidente del parlamento federale da deputati scelti in larga parte dal regime dei «normalizzatori». Considerando la profonda differenza della storia dei due neo eletti, l’uno profondamente comunista e l’altro aspirante alla restaurazione della Cecoslovacchia degli anni precedenti la Seconda guerra mondiale, la scelta non si dimostrò la migliore. Il contrasto maggiore tra i due uomini politici riguardava il modo di governare il paese. Per Havel, d’accordo in questo con il capo del governo Vaclav Klaus, bisognava lasciare mano libera allo sviluppo del mercato sebbene questo poi significasse corruzione senza limiti e impoverimento del paese. Anche il rispetto dell’ordinamento federale dello Stato li opponeva l’uno all’altro. Subito dopo l’elezione alla Presidenza Havel decise di recarsi in Germania (Berlino est e poi Bonn) sorprese non poco Dubcek, che si sarebbe aspettato un viaggio a Bratislava, prima che fuori dei confini federali. La divisione del paese in due Stati, la Repubblica ceca e quella slovacca, fu osteggiata da Dubcek fino all’ultimo. Perse la vita a seguito delle ferite riportate in un incidente automobilistico occorsogli mentre correva da Bratislava a Praga, per mobilitare forze politiche a favore di una consultazione referendaria, per impedire che la separazione fosse decisa da Klaus e da Meciar, contro la volontà  dei cittadini che i diversi sondaggi dicevano contraria. Havel si atteggiava a spettatore imparziale, ma un simile atteggiamento finiva per essere piຠconveniente proprio per la Cechia, con una popolazione maggiore e un’economia che aveva sofferto di meno nella transizione del sistema economico. Per fare un esempio: la Slovacchia era stata fortemente penalizzata dalla decisione voluta da Havel di arrestare la produzione di armi. Il risultato di quella decisione era stato un abnorme aumento della disoccupazione e un conseguente esaurimento delle entrate dovute alle esportazioni. Nel 1968 i riformatori avevano voluto la federalizzazione per garantire lo sviluppo armonico della varie parti del paese. L’abbandono di quella concezione della federalizzazione, che avrebbe potuto essere d’esempio per la transizione negli altri paesi dell’Europa centro-orientale, comportò nei fatti la rinuncia a governare la transizione del sistema economico e la fine di un possibile legame tra le due parti del paese: Boemia e Moravia di qua e Slovacchia di là . Vaclav Havel si rivelò accanito avversario dell’ideologia comunista, un fautore dell’anticomunismo, e sembrava voler giustificare questa convinzione sostenendo che era la maggioranza dei cecoslovacchi prima e dei cechi poi a spingerlo all’adozione di leggi liberticide e di provvedimenti che restituivano le proprietà  nazionalizzate dopo il 1948. Poté cosà­ accadere che il Parlamento di Praga assumesse la veste di un tribunale della storia, quando promulgò una solenne dichiarazione nella quale si asseriva che il sistema politico instaurato dopo il 1948 era il governo delle forze del male. La legge che prevedeva la restituzione dei beni nazionalizzati avvantaggiava lui e i suoi familiari e, soprattutto, la Chiesa e grandi monopolisti del passato. Di fronte alle risolute proteste di Dubcek e di molti cittadini democratici levate contro la lustrace , la «legge per la purificazione», diretta a mettere ai margini del sistema politico non pochi dirigenti comunisti riformatori del 1968, Havel promise che avrebbe presentato proposte migliorative, ma non lo fece mai. Che questa legge fosse sbagliata, per concezione e applicazione, è dimostrato tra l’altro dal gran numero di cittadini che hanno visto la loro innocenza riconosciuta dai tribunali nonché dalla massiccia presenza di comunisti «normalizzatori» nei governi succedutisi a Praga negli scorsi decenni. Nel 1978 esce Il potere dei senza potere , giudicato a ragione il «manifesto dei cecoslovacchi che vogliono vivere nella verità », rifiutano la menzogna comunque mascherata. Vi si trova un’appassionata denuncia del sistema capitalistico accanto a quello comunista. L’autore è Vaclav Havel, lo stesso personaggio che qualche anno dopo, da presidente cecoslovacco, affermerà  davanti ai governanti degli Usa «siamo venuti qua per imparare che cosa è la democrazia». Una bella capriola, una delle tante dell”ex feroce critico del sistema comunista per l’abisso che separava la politica dei proclami dal comportamento reale dei rappresentanti del potere. Con il pretesto di lottare a favore della pace, sotto la presidenza di Havel, la Cecoslovacchia e la Cechia hanno partecipato in diversa misura alla guerra «umanitaria» contro l’ex Jugoslavia, alla «coalizione dei volenterosi» impegnati dal 2003 nella guerra di Bush all’Iraq. Infine ha approvato lo «scudo antimissile» statunitense che doveva dislocarsi a 70 km da Praga. Parecchi commentatori hanno usato toni elegiaci per la morte di Havel descritto come degno successore di Masaryk e di Comenio per le sue dori di politico e di scrittore. Senza nulla togliere allo scrittore, al drammaturgo, all’uomo politico che si è battuto per le proprie idee, al poeta rivoluzionario come l’hanno definito alcuni vorrei sommessamente rammentare che il 26 novembre 1989 Claudio Magris tracciò il ritratto di «Dubcek, ovvero il realismo dei sogni». * storico dei paesi dell’est, biografo di Alexander Dubcek


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