“Putin, vattene via dalla Russia” parte la rivoluzione “bianca” a Mosca 100mila in piazza

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Mosca – Sono tanti, sono dappertutto. Si arrampicano sugli alberi di piazza Bolotnaja, quella che gli Zar usavano per le esecuzioni in pubblico; si allineano, sotto alla neve, in fila per quattro, sul margine del lungofiume; si ammassano pericolosamente su un ponticello che potrebbe forse non reggere il loro peso. E continuano a guardarsi l’uno con l’altro, a contarsi, a domandarsi stupiti «ma quanti siamo?». Saranno almeno 80, forse 100mila, la più grande folla mai vista su una piazza di Mosca dai tempi della fine dell’Urss. E torneranno. Già  tra una settimana, dicono sottovoce. Certamente la notte di Natale, insieme a tutti gli altri che hanno protestato a San Pietroburgo e nella altre città  di Russia, proclamano per iscritto. Anche loro sono sorpresi. E felici. Perché sanno che qualcuno, nelle stanze del Cremlino e negli uffici del premier Vladimir Putin, adesso è molto preoccupato. Il coro è quello collaudato delle manifestazioni di una volta, quelle fatte da una decina di militanti morsi alle caviglie dalla polizia: «Rossija bez Putina», «Una Russia senza Putin». Ma c’è qualcosa di diverso e inarrestabile nella piazza di oggi, dopo i brogli e gli arresti di domenica scorsa. Un popolo nuovo che invia i filmati via tablet, che sventola le bandiere più diverse, che si rivolge in inglese ai giornalisti di mezzo mondo e che d’improvviso fa sembrare vecchio tutto il resto: quelle ruspe gialle tirate fuori dai cantieri e messe in fila per contenere la folla; quei pullmini anteguerra con i vetri oscurati per nascondere le squadre di provocatori della polizia politica; quegli Omon (la sigla delle famigerate truppe antisommossa) dislocati a raggiera a formare “corridoi di sicurezza” lunghi almeno un chilometro. Sembrano fantasmi del passato, caschi, manganelli e faccia cattiva, piazzati l’uno a un metro dall’altro. Ma non fanno paura. Dentro a questa cornice da vecchio film, il popolo nuovo ascolta musica rock e si rimira con un tocco di vanità , mentre si scambia i nastri bianchi, scelti per simboleggiare questo risveglio improvviso. Ognuno ostenta il nastro bianco insieme a quello che si è portato da casa. E c’è di tutto, le bandiere dei difensori della Foresta di Khimki, e quelle verdi del partito democratico Jabloko. Le bandiere rosse dei comunisti, e quelle giallo nere dei nazionalisti più ortodossi. Le salopette gialle degli automobilisti organizzati, con un carroattrezzi come simbolo, e quelle arancioni del movimento di ex politici emarginati da Putin, “Solidarnost”. «È la rabbia che ci unisce», dice convinto Aleksandr Belov, leader del movimento per l’espulsione degli immigrati illegali (Dpni), «Abbiamo poche idee in comune. Ma siamo tutti d’accordo che non vogliamo essere presi in giro». Accanto a lui Mikhail Kassianov, tutt’altra storia, tutt’altra formazione, ex premier del governo Putin, cacciato su pressioni di molti oligarchi: «Guardate che cosa è riuscita a fare, l’arroganza del potere. Hanno esagerato nell’offendere la dignità  di un popolo». E la mappa della nuova società  civile scorre sul palco tra ex deputati, rapper, imprenditori, scrittori e cabarettiste. Stanno imparando a lottare insieme. E si sente nei discorsi. Ognuno tiene per sé le tesi che potrebbero dar fastidio agli altri. Si cerca di parlare di poche cose, di obiettivi primari: «Le elezioni vanno annullate», un boato corale. «Aprite le liste alle opposizioni», un altro boato. «Ecco l’elenco dei compagni arrestati in questi giorni…», un’ovazione da stadio in particolare al nome del vero leader carismatico di questo popolo, il blogger Aleksej Navalnjy. Dal carcere, ha comunque vinto ancora una volta la gara di popolarità  con tutti gli altri. Deve scontare due settimane per “resistenza alla polizia”. La folla chiede di liberarlo subito. Difficile che accada, ma qualcuno tra i consiglieri del premier ci starebbe pensando. Padrone del web, con il suo seguitissimo blog anticorruzione, Navalnjy è l’artefice principale di questa unità  improvvisa. Denis Bilunov, tecnico informatico ne è convinto: «Ha messo d’accordo la gente più disparata è merito suo se siamo tutti qua». Di vero c’è un episodio avvenuto a inizio raduno proprio sul ponte Luzhkov quando si sono incontrati due file di ragazzi molto diversi tra loro: i membri di un’organizzazione anti-immigrati, con un look da naziskin, e i “giovani antifascisti” che di tanto in tanto organizzano in periferia qualche “contro-spedizione punitiva”. Gli insulti reciproci sono partiti in automatico. Poi qualcuno ha cominciato a urlare «Navalnjy libero» e qualcuno gli ha risposto «Putin dimettiti». E sono venuti giù insieme come un gruppo di amici in gita. Non può funzionare sempre, ma adesso è importante. Lo ammette in un angolo del palco, Grigorij Javlinskij, fondatore del partito democratico Jabloko. Sempre diffidente riguardo alle nuove alleanze, accusato di snobismo sospetto, ha deciso di unirsi anche lui. Guarda con tenerezza l’ecologista Evgenja Chirikova che diventa rossa quando grida «Ridateci le elezioni, ladri», controlla i movimenti del portavoce del leader comunista Zjuganov che ha preferito mandare avanti i suoi e restarsene in disparte. Ma anche lo scettico Javlinskij comincia sciogliersi: «È prematuro parlare di alleanze future. Però è vero qualcosa sta cambiando, spero solo che quelli lì, quelli al potere, se ne rendano conto. E che siano responsabili». E un piccolo importante segnale arriva proprio dalla polizia che assiste placida senza provocare. Gli ordini sono stati dati con saggezza. Sul palco se ne accorgono e ringraziano: «La polizia di oggi è stata la polizia di uno stato democratico, bravi». Una manifestante regala un mazzo di fiori bianchi a un “cosmonauta”, il nomignolo russo per gli agenti in assetto antisommossa. L’espressione dentro al casco fumé resta un mistero. Ma i fiori vengono comunque accettati e riposti con cura sul marciapiede che si copre di neve.


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