Sam Rivers, il guru del sax

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Le morti dei jazzisti incalzano e non sempre si hanno forza, tempo ed occasione di ricordarli. Negli ultimi mesi se ne sono andati il pianista Johnny Raducanu, l’arrangiatore Pete Rugolo, il trombonista Bob Brookmeyer, il compositore André Hodeir. Ignorare, però, la scomparsa del sassofonista afroamericano Sam Rivers (spentosi ad Orlando, in Florida, il 27 dicembre per una polmonite) è impossibile per il valore del musicista, attivissimo fin quasi alla morte, e la fama che ebbe in Italia negli anni ’70 presso i neofiti del jazz.
La carriera di Rivers (nato nel 1923 in una famiglia di musicisti, cresciuto tra El Reno, Little Rock e Chicago) è magnificamente poliedrica. Coltiva fin da giovanissimo il polistrumentismo che conserverà  in età  adulta (sax soprano e tenore, flauto, clarinetto basso, piano), come dimostrano gli studi in conservatorio a Boston di composizione, violino ed alto (1947). Oltre all’apprendimento teorico c’è quello che avviene sulla strada accanto a Jaki Byard, Billie Holiday (in Florida nel 1955-’57), come sideman di Wilson Pickett, B.B.King e T-Bone Walker. Gli anni ’60 sono particolarmente fertili per una scrittura con Miles Davis (1964), la precoce attività  di insegnamento, le registrazioni per la Blue Note (Dimensions and Extensions, 1967), il sodalizio con Cecil Taylor (1968-’73). Rivers è uomo d’avanguardia che – scrive Xavier Prévost – ««ha avuto un ruolo importante nella sintesi fra la libertà  e la spontaneità  tipiche del free jazz, e la preoccupazione di forme sapientemente elaborate»». A New York, nel 1971, dà  vita con la moglie Beatrice allo Studio RivBea nell’East Village, luogo di nascita e sviluppo della loft scene: la nuova generazione dei jazzisti si esibisce ed insegna in questo circuito parallelo ed alternativo ai club. Sam Rivers, che ha quasi cinquant’anni, ne è il guru e fa spesso tour in Europa in trio con Dave Holland e Barry Altschul. Così sbarca nell’Italia dei primi Umbria Jazz e del festival di Bergamo (1976) e folgora l’immaginario collettivo dei giovani movimentisti che si accostano alla musica black ed eleggono a propri eroi Archie Shepp, l’Art Ensemble of Chicago, Rivers ed Anthony Braxton. Il polistrumentista di El Reno godrà  di un temporaneo successo (anche discografico, The Quest, Red Records) e tirerà  dritto per la sua strada con esperienze significative come l’organico di ance Winds of Manhattan, le collaborazioni con le orchestre di Dizzy Gillespie e Sun Ra, l’incisione nel 1998 – per merito di Steve Coleman – di due eccellenti album Rca (Inspiration, Culmination).
In essi la Sam Rivers’ Rivbea All-Star Orchestra dà  forma ad estese e cangianti composizioni suonate da allievi e adepti ormai famosi, la meglio gioventù: Coleman, Greg Osby, Chico Freeman, Hamiet Bluiett, Ray Anderson, Joe Bowie, Ralph Alessi, Baikida Carroll, Bob Stewart, Anthony Coleman. Vent’anni prima (1978) a Pino Candini Rivers aveva dichiarato: ««Adesso il jazz è estremamente aperto, tutto avviene alla luce del sole, le culture più disparate di incontrano. Una volta c’erano i grandi modelli cui far riferimento, Young, Parker. Oggi non è più possibile perché i musicisti sono molto personali, individuali, non imitabili. Ogni strumentista è un compositore che crea il suo mondo musicale; non ci sono più regole prefissate, ciascuno inventa le proprie»».


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