Da Zenone al big bang, qual è il senso del tempo

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Duemilacinquecento anni fa, Zenone di Elea decretò che una freccia in volo non può muoversi, visto che in ogni istante è ferma. E ne dedusse che aveva ragione il suo maestro Parmenide, a sostenere che il tempo non esiste. E che allora non esiste neppure il cambiamento, in mancanza di un tempo nel quale le cose possano cambiare. 
Oggi il ragionamento di Zenone non ci sorprende più, perché il cinema l’ha reso popolare tra gli spettatori. Tutti sappiamo che nei film in realtà  non accade niente. La storia è tutta nella pellicola, “anzitempo”. E il divenire cinematografico non è altro che un’illusione, riducibile a una successione di istantanee statiche e “compresenti”. Gli spettatori normali non vanno oltre queste ovvie constatazioni, ma i filosofi e gli scienziati sì. E si domandano se le cose stiano così solo al cinema, o anche nella vita al di fuori della sala. In particolare, si domandano se il tempo e il cambiamento esistano per davvero o se non siano un’illusione analoga a quella cinematografica. 
C’è una specifica illusione temporale che il cinema non riesce a procurarci. Ed è invertire la direzione della freccia del tempo, semplicemente facendo girare la pellicola al contrario. La cosa non funziona, perché un film visto al contrario è completamente paradossale. Nessuno, infatti, ha mai visto una frittata disfarsi nelle uova intere. Un tuffatore, uscire dall’acqua per i piedi. Un vecchio, diventare giovane. E un morto, resuscitare. 
L’ovvia constatazione è che così va il mondo. Ma la scienza non si accontenta delle constatazioni: vuole, e deve, anche capire perché il mondo va così. In particolare, vuole, e deve, capire da dove arriva la freccia del tempo, e come si accorda con il resto delle cose che essa ha già  capito. Cioè, con il complesso delle leggi che formano collettivamente il sapere scientifico. 
Benché queste leggi facciano regolarmente intervenire il tempo nelle loro formulazioni, a partire dai concetti basilari della velocità  e dell’accelerazione, il problema della freccia del tempo è lungi dall’essere stato risolto in maniera soddisfacente. Ma talmente tanti passi avanti sono stati fatti verso la sua soluzione, che anche solo per enumerarli e illustrarli è necessario un denso libro di cinquecento pagine: Dall’eternità  a qui di Sean Carroll (Adelphi), di cui proviamo a riassumere le tappe principali. 
In principio fu la fisica newtoniana. Essa si interessa del moto di un piccolo numero di particelle isolate, come le palle di un biliardo o i pianeti di un sistema solare. Il loro moto avviene in una certa direzione, ma non sarebbe affatto paradossale che avvenisse nell’altra. Il film dello scontro fra due palle da biliardo, o di un’orbita planetaria, si può dunque proiettare al contrario, senza provocare nessuna sensazione di straniamento. Detto altrimenti, le leggi della fisica newtoniana sono reversibili, e non prevedono una freccia del tempo. Quest’ultima interessa invece fenomeni molto diversi da quelli studiati da Newton, come il calore. Benché la freccia del tempo sia stata così battezzata solo nel 1927, dall’astronomo Arthur Eddington, la sua prima formulazione fu data nel 1850 da Rudolf Clausius, nella forma della cosiddetta seconda legge della termodinamica: «Il calore si trasferisce spontaneamente dai corpi caldi a quelli freddi, ma non viceversa». Cosa sia il calore, lo si può intuire dal fatto che quando si scalda dell’acqua, le sue molecole si muovono più velocemente, fino ad arrivare a un moto turbolento nell’ebollizione. Nel 1859 James Clerk Maxwell precisò questa intuizione, definendo la temperatura di un corpo come una misura dell’energia media delle particelle che lo compongono: più le particelle si muovono, e più sale la temperatura. 
In maniera analoga si possono ridurre tutte le proprietà  di un gas al comportamento statistico delle particelle che lo compongono e si scopre che la termodinamica non è altro che l’estensione della fisica newtoniana allo studio di un gran numero di particelle. In particolare, nel 1872 Ludwig Boltzmann adottò questo approccio per definire l’entropia di un sistema macroscopico come una misura del suo disordine, calcolato in base al (logaritmo del) numero delle sue configurazioni microscopiche indistinguibili. 
Una volta definita l’entropia, Boltzmann la usò per spiegare l’emergenza della freccia del tempo. Il suo teorema H dimostrò infatti che «un sistema isolato evolve spontaneamente da stati a bassa entropia a stati ad alta entropia, ma non viceversa». Ma nel 1876 Johann Loschmidt notò che la cosa era paradossale: se le leggi della fisica newtoniana sono reversibili, da esse non dovrebbe essere possibile dedurre l’esistenza di un processo irreversibile, come la crescita di entropia. 
Per risolvere il dilemma, Boltzmann propose l’ipotesi che il nostro “universo” non sia altro che una bolla a bassa entropia di un multiverso a massima entropia. L’esistenza del multiverso non ha bisogno di giustificazioni, perché il suo stato di completo disordine è a massima probabilità . L’esistenza del nostro universo si giustifica invece in base a una delle tante fluttuazioni, più o meno ordinate, che alla lunga devono prima o poi accadere. Quanto al perché noi siamo proprio in una di queste fluttuazioni a bassa probabilità , si spiega con il principio antropico: in fondo, possiamo essere soltanto nei luoghi che permettono la vita, come appunto quelli a bassa entropia. 
Le idee di Boltzmann erano state sviluppate nell’ambito della termodinamica dell’Ottocento, ma sono state riformulate nell’ambito della cosmologia del Novecento. Il multiverso viene ora interpretato come il vuoto quantistico, e il nostro universo come una sua fluttuazione, in due possibili modi: o come un universo bolla, galleggiante nel vuoto, oppure come un baby universo, che se n’è distaccato. In entrambi i casi, come possibile conseguenza dell’inflazione primordiale proposta da Alan Guth nel 1979. 
Perché la cosa abbia un senso, bisogna che il vuoto sia uno stato di massima entropia. A prima vista sembrerebbe il contrario, ma Roger Penrose ha notato che effettivamente l’entropia cresce, man mano che la freccia del tempo parte dal Big Bang, passa attraverso la formazione delle strutture galattiche e la loro dissoluzione in buchi neri, e va verso l’evaporazione di questi ultimi. Quanto all’entropia del vuoto, deriva dall’energia oscura responsabile dell’accelerazione dell’espansione dell’universo, scoperta nel 1998 da Saul Perlmutter, Brian Schmidt e Adam Riess, e premiata nel 2011 con il premio Nobel per la fisica. 
Come si vede, oggi per parlare del tempo non bastano più frasi come quella di Agostino nelle Confessioni: «Se non mi chiedi cos’è, lo so, ma se me lo chiedi, non lo so». O aforismi come quello di Wittgenstein nel Tractatus: «Il mondo è tutto ciò che accade», e non «tutto ciò che c’è». Bisogna avere invece una solida informazione scientifica, per procurarsi la quale non ci sono vie regie, ma per iniziarsi alla quale Dall’eternità  a qui costituisce un’ottima introduzione.


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