Storia dell’impunità del clero

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L e preoccupazioni di Papa Bergoglio che, in un recente incontro con rappresentanti dei religiosi latinoamericani, ha parlato di corruzione e abusi sessuali (Pio X nel suo Catechismo li definiva «peccati impuri contro natura») all’interno del Vaticano, seguite dalla testimonianza di un ex parroco di Roma coinvolto in vicende di pedofilia prelatizia, richiamano una antica e ininterrotta tradizione di interventi pontifici che risalgono, almeno, a Lucio II (1145) e a Gregorio IX. Quest’ultimo, in una bolla del 1227 condannò gli incontinenti chierici «iacentium infornicatione» paragonandoli a giumente «computrescentes in stercore suo». E, qualche secolo dopo, il tribunale del governatore di Roma condannò a morte alcuni membri di una Confraternita ispano-portoghese che celebravano — come oggi in alcune cristianità del Nord Europa — matrimoni omosessuali nella Basilica di S. Giovanni a Porta Latina: Gregorio XIII avrebbe voluto bruciarli vivi. A fine Cinquecento un confessore francescano di Venezia accusato di abusi e molestie si difese dichiarando che «il sodomitar era solo da cardinali et persone grandi et illustri» e due giovanissimi chierici napoletani spacciarono false indulgenze per pagarsi i ragazzini.
Sul funzionamento della giustizia ecclesiastica fanno ora forte luce, grazie anche ad una vasta messe di documenti di archivi pontifici e periferici (diocesi e inquisizioni), Michele Mancino e Giovanni Romeo nel volume Clero criminale (Laterza, pp. 237, 22) che contribuisce a colmare una lacuna della nostra storiografia, forse troppo «sensibile al fascino discreto della Controriforma». Neppure il «trauma» della Riforma protestante, con la sua devastante propaganda in materia, aveva infatti modificato la situazione: «Per larga parte dell’età moderna… omicidi, violenze, pratiche sessuali di ogni genere, estorsioni, truffe, usura, falsificazione di atti o di moneta, contrabbando, abusi legati al ministero sacerdotale, vedono con frequenza sotto processo esponenti del clero». Né mancano delitti, anche efferati, commessi nei monasteri femminili e «non di rado finiscono alla sbarra le stesse autorità della Chiesa». Fece clamore, a metà Cinquecento, la condanna al carcere del vescovo di Polignano, sorpreso la domenica delle Palme nel letto di una cortigiana che, però, pur essendo in regola con il tributo papale delle meretrici, fu frustata in piazza, subì la confisca del patrimonio, la distruzione della casa e la condanna all’esilio. Al di là dei moltissimi casi ricostruiti nel volume — tra Toscana, Trento, Repubblica di Venezia, Stato romano e Regno di Napoli — le questioni centrali sono la pretesa della Chiesa cattolica di sottrarre ai giudici degli Stati i crimini degli ecclesiastici per sottoporli ai propri tribunali, che offrivano molteplici vie di fuga, e il groviglio di giurisdizioni religiose (inquisitoriali centrali e periferiche, congregazioni romane e ordini religiosi, tribunali diocesani e dei nunzi apostolici), in frequente conflitto tra loro, che si disputano gli imputati, spesso per assolvere quelli condannati in prima istanza anche da giudici «secolari», mettendo a «dura prova» l’autorità della Chiesa e favorendo il «clero delinquente» che apprese a navigare «con maestria tra le giurisdizioni disponibili». La prima questione, il così detto privilegio di foro per gli ecclesiastici — che risaliva al V secolo e che sarà ribadito in molti concordati del XVIII — verrà eliminata nell’Ottocento e definitivamente solo con la legge Siccardi del 1850, che rivendicherà allo Stato la pienezza della giustizia su cose e persone «senza differenza tra ecclesiastici e laici». Alla Camera Brofferio farà l’esempio di un frate condannato a morte per il barbaro assassinio del marito dell’amante, salvato dal vescovo che aveva esteso l’immunità anche alla donna complice.
Colpisce la «ridotta attenzione dei vescovi italiani agli eccessi del clero», tra i quali è prevalente il concubinato. Del resto anche in Germania, a inizio Cinquecento, nella diocesi di Ratisbona il 55 per cento dei sacerdoti conviveva stabilmente con donne, mentre il nunzio a Venezia, Aleandro, informava Roma che «quando un chierico in compagnia di un laico faceva qualche furto o altro delitto di morte, il laico fosse appiccato et il chierico andasse a sollazzo per la terra» e proponeva, per evitare complicazioni, di condannare a morte per eresia un veneziano colpevole di sodomia e rifugiatosi in un «luogo immune» dalla giustizia della Serenissima. Nulla poterono il Concilio di Trento o il severo Pio V, che pur avrebbe voluto trasformare l’Urbe «in un grande convento», perché «l’esigenza di tutelare il buon nome del clero stava assumendo un rilievo crescente» rispetto a quello di «reprimere» i suoi delitti, con l’aggravio della «emarginazione dei tribunali vescovili», grazie anche all’azione dei nunzi «a vantaggio del centralismo romano», che favorì una «ulteriore delegittimazione dei vescovi», fautori di sanzioni esclusivamente pecuniarie e talvolta reticenti anche sulla «esplosiva situazione dei monasteri femminili» e sulla diffusione della magia. L’attivismo di alcuni tribunali ecclesiastici penali si spiega, essenzialmente, con la necessità di non lasciare spazio ai giudici degli Stati e spesso le pene gravi («alle triremi») per delitti gravissimi vengono poi condonate.
Comunque, tra recidive e conferme, un sacerdote veneziano reduce da più di dieci processi continuò per oltre vent’anni «ad amministrare i sacramenti» nella stessa parrocchia. E non fu un caso eccezionale: le «vie di fuga» restavano molteplici e le «poche condanne rigorose» dei giudici diocesani venivano «sconfessate dai nunzi o… da altre istituzioni di livello superiore».
Nel Seicento l’Italia meridionale — sempre comprensiva in materia — non vede diminuire i procedimenti contro il clero «delinquente», che iniziano lentamente a declinare dopo il 1710, per crollare negli ultimi decenni. In tutta Italia, comunque, il secolo XVII continua a vedere il monopolio ecclesiastico sui crimini di chierici e religiosi. Ci vorranno i regalismi borbonici e lorenesi, poi la rivoluzione di Francia e i giacobini, per indurre la Chiesa di Roma a scegliere nuove e più moderne strade per difendere l’onore del suo clero.


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