Generazioni a Praga in cerca di un rapporto

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Passeggiare aiuta a conoscere non solo il mondo ma anche se stessi e fin dai tempi dell’avanguardia Praga è stata luogo prediletto di passeggiate letterarie, tradizione che ha attraversato il surrealismo con Passante di Praga (1938) di Vitezslav Nezval, il realismo totale di Bambino di Praga (1950) di Bohumil Hrabal ed è sopravvissuta fino ai giorni nostri, come dimostra il libro di Emil Hakl, Genitori e figli, appena tradotto da Laura Angeloni per Atmosphere libri (pp. 142, euro 14). 
Hakl (pseudonimo di Jan Benes, classe 1958) è uno degli autori più interessanti dell’ultimo decennio, nel corso del quale ha pubblicato (dopo due giovanili raccolte di poesie) due romanzi e quattro libri di racconti e/o novelle, generi «minori» che più si adattano peraltro alla delicata vena surreale dei suoi inquieti dialoghi ininterrotti.
Per un turista la topografia praghese di Genitori e figli è meno riconoscibile, sia perché claustrofobicamente delimitata dal parco Stromovka, incastrato tra i meno frequentati quartieri di Letnà¡ e Dejvice, sia perché circoscritta dalle sciatte birrerie in cui i due nevrotici protagonisti si trascinano, fermandosi a scambiare frasi solo apparentemente motivate dall’alcool. Inconsueta è del resto anche la coppia di girovaghi, «due ombre che balzellavano sul marciapiede alla luce gialla dei lampioni», un padre e un figlio alla ricerca ossessiva di un rapporto, per quanto ironico e sarcastico. 
La distanza tra i due è segnata da un infantile ma fatale malinteso: quando una mattina al bambino di cinque anni avevano chiesto con chi avrebbe desiderato vivere, decisiva si era rivelata la sculacciata paterna del giorno prima – è allora che il loro legame tra padre e figlio si era spezzato definitivamente. Ed è solo attraverso la parola, la rielaborazione delle rispettive vicende esistenziali e il dialogo ossessivo che questi due outsider praghesi provano a riavvicinare le proprie vite, o meglio a far combaciare almeno per un istante i lembi di due esistenze così diverse e distanti. 
Quello creato da Hakl è una sorta di dialogo assoluto tra i due protagonisti, spesso interrotto e riannodato, che è in grado di fagocitare qualsiasi argomento: gli animali scomparsi dallo zoo, le rispettive donne, l’infanzia del padre, gli aerei da combattimento, la qualità  della birra, i cocktail più improbabili, i lassativi, la ricetta migliore per le polpette, il bambino avuto molti anni prima dal figlio a sua insaputa. Ogni scambio di battute mescola sacro e profano, alto e basso, in un dialogo che si nutre del piacere stesso della parola, unica forza capace di sbrogliare «l’incomprensibile caos dei rapporti». 
Genitori e figli è intessuto di dialoghi struggenti, circolari nella loro essenza (spesso sono del resto introdotti dalle parole «ma la conosci questa storia»), e che in fondo testimoniano un inganno reciproco di fondo (benché a fin di bene): «il dialogo è solo un’illusione. Non c’è persona al mondo che non ambisca a parlare sempre e solo di sé, finché è possibile». La comica coppia, che pure vuole trasmettersi affetto, sembra allora sempre sul punto di litigare, di affermare la propria univoca visione del mondo, con il figlio costretto a soffocare in continuazione il «demone rabbioso» che si risveglia in lui a ogni rimprovero del padre, figura dall’ironia sferzante e disillusa: «sono duemila anni che il mondo va avanti senza novità , solo variazioni dello stesso tema: carbone, idrogeno, ossigeno e azoto». 
Come capita nelle lunghe chiacchierate sentimentali, l’aneddoto cede spesso il passo al lirismo, gli episodi raccontati illuminano sempre, pur nella loro tragicità , quella che a Hrabal piaceva definire la «perlina sul fondo». I due poli elettrici del padre e del figlio sembrano attrarsi e respingersi in continuazione: da un lato la figura magistralmente caratterizzata del padre stralunato e ossessionato dai propri ricordi (nei quali ripercorre segmenti casuali della propria avventurosa vita privata e familiare), dall’altro quella un po’ naif del figlio («ti comporti come se fossi il personaggio di un fumetto, o che so io»). 
Il dialogo è spesso messo in moto dalle cose osservate, che però restano sempre mute perché è l’atto dell’interpretarle attraverso le esperienze personali dei protagonisti a posizionarle nel mondo. Altrimenti restano estranee, quasi minacciose: «ebbi la sensazione che dalle profondità  di quelle case tetre ci scrutassero facce selvagge, artificiosamente dilatate». L’atmosfera di grande favola moderna è data dalla telecamera che inquadra i due protagonisti e che si allontana sistematicamente per relativizzarne la storia: «una delle due figure che camminavano scalpicciando sul fondo asfaltato del mondo. (…) Dall’alto non si vedevano le loro facce. Da ancora più in alto sembravano due statuine schematicamente intagliate nel legno, che inquiete si muovevano nella periferia di un presepe notturno».
Genitori e figli, dal quale è stato anche tratto un film di successo, culmina nel momento in cui il padre per un momento dimentica persino il nome del luogo in cui si sta svolgendo la passeggiata, squarciando all’improvviso la tela e smascherando l’inganno letterario: la storia raccontata ha poco in comune con le classiche passeggiate letterarie attraverso Praga e ha invece un carattere universale, dato dalla presa di coscienza della vecchiaia. 
Padre e figlio sono ben consapevoli, a ogni replica, che quella potrebbe essere la loro ultima passeggiata insieme, che quell’occasione potrebbe non ripresentarsi in futuro. Proprio da questa consapevolezza scaturisce quell’irrefrenabile desiderio di raccontare, e quindi reinterpretare, le proprie vicende: «siamo sempre lì ad aggiustare la realtà , la semplifichiamo, la stilizziamo. La coltiviamo».


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