La diplomazia mineraria dell’Ue

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I beneficiari sono però imprese private. È una strategia abile, si presenta come «attività  minerarie sostenibili» o «aiuti allo sviluppo e il know how locale a vantaggio delle economie emergenti», ma si risolve nell’estrarre materie prime altrui. Attraverso la Banca d’investimento europea (Eib), capitali pubblici finanziano grandi imprese multinazionali (Bhp Billington, Rio Tinto, Golcorp), protagonisti di attività  minerarie che provocano spesso conflitti territoriali, distruzione ambientale, spesso anche l’espulsione delle popolazioni locali. 
In una lettera aperta alla Commissione, redatta da 50 parlamentari e presentata dal socialdemocratica olandese, Thij Berman, il 24 maggio 2011, si chiede una moratoria al finanziamento pubblico europeo per i progetti minerari dove “raramente si beneficia il paese produttore e le popolazioni locali”.
Ovviamente questa depredazione si giustifica con la necessità  di ottenere materie prime minerali indispensabili per mantenere la competitività  delle industrie europee. Si legge nel rapporto Estrai il metallo e scappa (www.wrm.org.uy/deforestacion/mineria): «L’aumento dei prezzi delle materie pime e l’accaparramento di alcuni minerali da parte di Cina, India e altri paesi emergenti sta determinando il mercato. Come reazione, l’Unione Europea affila le unghie (…). Il 70% delle industrie manifatturiere europee dipende dalle materie prime minerali, metalliche e non, che l’Europa deve importare, visto che la sua produzione interna fa appena il 3% mondiale. Per fabbricare un telefono cellulare, un computer o una televisione al plasma sono necessari fra 40 e 60 diversi minerali fra cui litio, cobalto, tantalio e antimonio, materia prime di “importanza strategica” sempre più difficili da trovare. Cina e India consumano tra il 40 e 50% della produzione mondiale». 
Dunque tecnocrati ed esperti europei hanno elaborato nel 2008 una strategia diplomatica per le «materie prime non energetiche», presentata alla Conferenza europea dei minerali a Madrid nel 2010, con l’obiettivo di «lavorare perché l’industria europea possa seguitare a sviluppare un ruolo di prim’ordine nel campo delle nuove tecnologie e dell’innovazione industriale». È una strategia a tutto campo: dalle regioni andine (oro), ai territori indigeni huicholes del Messico (argento), al litio dal nord dell’Argentina, nichel e cromo dall’isola filippina di Palawan. E poi rame e cobalto dalle miniere della regione di Mopani in Zambia, dove opera l’impresa a capitale svizzero, Glencore AG, che avvelena terra e gente con arsenico e diossido di sulfuro: ha ricevuto 48 milioni di euro dalle Eib europea per lo «sviluppo sostenibile regionale». Il caso del coltan congolese a cavallo tra la fine degli anni ’90 e i primi del secolo è emblematico: 27 imprese occidentali, di cui almeno dodici europee, hanno partecipato direttamente alla devastazione della regione orientale del paese in pieno conflitto, e indirettamente al massacro di popolazioni locali – fatti ampiamente denunciati dai media internazionali nel 2009, che misero in luce le complicità  di imprese, governi e linee aeree come la belga Sabena nell’export di questi “minerali strategici per l’industria europea”. 
Questi progetti di estrazione di materie prime lasciano alle popolazioni locali terre e acqua contaminate e un alto costo ambientale – e durante la «vita attiva» del progetto minerario magari un po’ di posti di lavoro pericolosi e mal pagati e una accresciuta povertà . I veri beneficiari sono sempre gli stessi, alle economie locali restano solo «briciole di sviluppo».


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