La mossa italiana: l’Ue eviti nuovi vincoli sul debito

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La lettera è partita per Bruxelles il 29 dicembre, subito prima della breve pausa per le feste. E anche al netto dei contenuti di merito, per il governo di Mario Monti è stato un messaggio all’Europa lanciato su più livelli: c’è sì la sostanza tecnica e la diatriba sul filo del diritto, ma anche un’assertività  politica che magari coglierà  qualcuno di sorpresa. 
Perché in fondo il messaggio implicito nella missiva del governo Monti è che l’Italia del 2012 non partecipa al club solo per rispondere alle richieste di austerità  avanzate dai soci forti. Al tavolo europeo il governo di Roma porta anche proposte sulle quali Angela Merkel, Nicolas Sarkozy e il premier di Londra David Cameron dovranno iniziare a fare i conti: anche quando, per esempio sui temi del mercato europeo, i leader di Francia e Germania non si trovano sicuramente fra i primi della classe.
Sulla sostanza delle idee italiane e sul loro impatto si annuncia un gennaio intenso per la diplomazia dell’euro. L’occasione è legata alle procedure dopo l’ultimo accordo dei leader dell’area-euro il 9 dicembre scorso. Entro il 29 dicembre i governi erano chiamati da Herman Van Rompuy, presidente del Consiglio europeo, a presentare i loro emendamenti per arrivare a un nuovo accordo internazionale o a un Trattato: non è ancora chiara, dopo la rottura con Londra, la forma che assumerà  la nuova intesa. La sostanza comunque non cambia poi troppo. Sarà  ciò che Mario Draghi, presidente della Banca centrale europea, chiama «fiscal compact» e nell’intestazione del vertice di dicembre era un’«architettura rafforzata per un’unione economica e monetaria». È quello il testo sul quale le proposte di emendamento sono già  piovute a Bruxelles da tutte le capitali.
Quelle dell’Italia riguardano due punti fra i quali il primo, più delicato, tocca il tema del debito. Il governo di Mario Monti non intende lasciar spazio a vincoli ancora più stretti di quelli che i governi europei hanno trasformato in legge meno di due mesi fa. È un aspetto che può determinare il peso delle manovre finanziarie nel prossimo decennio. Il vertice dei leader del 9 dicembre prevede infatti che «dev’essere sancito nelle nuove disposizioni» l’obbligo di ridurre ogni anno il debito in eccesso di un ventesimo della distanza che separa dalla soglia ammessa (il 60% del Pil). In questo passaggio delle conclusioni del vertice del 9 dicembre non si menziona alcun margine possibile flessibilità , ma se così fosse per l’Italia il vincolo potrebbe rivelarsi molto severo: una riduzione del debito del 3% del Pil ogni dodici mesi. In un anno in cui il Pil nominale non dovesse salire, come è probabile accada nel 2012, la correzione del debito dovrebbe essere di oltre 45 miliardi. Un’applicazione rigida di un criterio del genere rischia di condannare il Paese a un decennio di manovre recessive pur di evitare il tunnel che porta alle sanzioni europee. 
Non è un esito inevitabile, al contrario. L’intesa al vertice del 9 dicembre a Bruxelles si basa infatti sul cosiddetto «Six Pack», l’intesa che il sistema istituzionale di Bruxelles ha già  trasformato in legge europea a novembre scorso. E nel «Six Pack» la flessibilità  esiste eccome: il debito va ridotto sì, ma tenendo conto della congiuntura economica e di vari altri fattori. Nel «Six Pack», che pure è stringente al punto da sanzionare anche il debito eccessivo, non esistono obblighi tali da chiudere l’Italia in un vicolo cieco di austerità  e recessione. È questo il punto su cui, d’intesa con Mario Monti, insiste il ministro per gli Affari europei Enzo Moavero Milanesi: «Per noi è importante che nell’accordo non ci sia niente che squilibri e complichi il quadro complessivo rispetto al “Six Pack”. Peraltro tutti i governi europei, incluso quello italiano che ci ha preceduto, lo hanno approvato da poco», osserva Moavero. «Va benissimo riprendere e codificare quelle norme in maniera più formale e solenne, ma non ci sembra necessario fare di più». 
Anche qui, dietro la tecnica, si intravede una discussione fortemente politica. L’accordo voluto dalla cancelliera Angela Merkel al vertice del 9 dicembre riproduce infatti quanto già  deciso nel «Six pack». Nella sostanza il vertice ha aggiunto ben poco: quasi solo l’impegno al pareggio di bilancio da introdurre nelle costituzioni nazionali. Non serviva affatto un drammatico summit notturno fra i leader e lo strappo con Cameron, solo per riaffermare regole che esistevano già  e persino Londra aveva votato. Ma è proprio la tenacia di Merkel nel voler portare tutto dentro un Trattato, anche a costo rischiare un no per referendum in Irlanda o in Danimarca, a rivelare l’agenda della leader tedesca. Ciò di cui ha bisogno Merkel è un patto con un surplus di visibilità , non un’oscura direttiva europea. Alla cancelliera quel tipo di accordo da prima notizia del telegiornale o prima pagina della Bild Zeitungserve al più presto, perché la sua priorità  ora è rassicurare un pubblico e un establishment tedeschi sempre più in rivolta verso l’Europa. Solo così lei può sperare di ricavarsi nuovi margini di manovra nella gestione della crisi. «La linea del governo tedesco va ben compresa — osserva Moavero Milanesi —. Non è facile procedere di fronte all’attuale, complessa situazione, se l’opinione pubblica in Germania non si sente garantita dalle regole di bilancio dell’area-euro». 
Niente di tutto questo impedisce all’Italia di giocare, in parallelo, una partita propositiva. Nella lettera mandata giovedì a Van Rompuy c’è anche un’iniziativa in questo senso. «Chiediamo che la sezione sulla crescita e sulla competitività  sia ripensata. Andrebbe rafforzata e resa più operativa — spiega Moavero —. Occorre qualcosa di più concreto di quanto ci sia adesso, per esempio sul modo di far funzionare molto meglio il mercato interno europeo e di garantire a tutti le opportunità  che offre». 
Non sono queste le priorità  di Angela Merkel, né si tratta di un terreno sul quale la Germania sia davvero una locomotiva nell’Unione. Forse è per questo che il governo italiano tiene presente anche uno scenario nel quale la sezione dell’accordo dedicata a crescita e competitività  resti ai minimi termini. «A quel punto proporremmo di uscire dal rischio di un equivoco concettuale e politico: sarebbe meglio che nell’intestazione ufficiale dell’accordo non si parlasse più di “Unione economica”, perché in realtà  si affronterebbero soltanto questioni di disciplina monetaria e di bilancio», avverte Moavero. In quel caso l’Italia chiederà  che alla crescita si dedichi in ogni modo una prima discussione al summit europeo del 30 gennaio, e molto del vertice di marzo. Nel frattempo l’agenda di Monti, quando vedrà  nelle prossime settimane Merkel, Sarkozy e Cameron, di fatto è già  nero su bianco.
Federico Fubini


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