«Da Scilipoti solo 600 euro»

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ROMA — «Per un anno ho lavorato con l’onorevole Scilipoti dalle nove del mattino alle undici di sera, sabato compreso. E la domenica c’erano i convegni e i comizi in Sicilia, senza pernottamento né rimborso spese. Prendevo 600 euro al mese, versati quasi sempre con assegno bancario del deputato e corrisposti come pagamento di contratti a progetto». Non ha mai lavorato in nero? «Sì, tra un contratto e l’altro è capitato». A parlare è Vincenzo Pirillo, consulente del lavoro che ha lasciato Domenico Scilipoti perché «stufo di essere sfruttato». Forse gli farà  causa, o forse no: «Per me la priorità  è la battaglia di categoria, non il mio caso personale».
C’è l’assistente di un onorevole che ha due lauree, un master e un contratto da colf. E non è un lapsus né un’eccezione, perché gli assistenti di deputati e senatori inquadrati al pari di baby sitter e badanti si contano a decine. Di gran moda, per così dire, è anche il contratto a progetto, stipendio medio mille euro lordi al mese: e pazienza se, nella quasi totalità  dei casi, il progetto non esiste. E chissà  se è vero che un collaboratore si è visto proporre un contratto da 100 euro l’anno, rafforzato da un magro contributo fuori busta. 
Sono i numeri a disegnare lo scandalo, cifre choc che il Coordinamento dei collaboratori parlamentari, guidato da Emiliano Boschetto, ha girato per lettera al premier Mario Monti. «Pregiatissimo presidente del Consiglio… Secondo i dati forniti dalla Camera, nel 2010 i contratti regolarmente registrati erano circa 230, ciò significa che circa 400 deputati non utilizzavano per la stipula di un contratto con il collaboratore il fondo a ciò destinato…». Calcolatore alla mano, se l’Italia adottasse il modello europeo — collaboratori contrattualizzati e pagati direttamente dal Parlamento — il risparmio, per Montecitorio sarebbe di 17.712.000 euro l’anno. E sparirebbe la vergogna di quei rapporti lavorativi che l’associazione dei collaboratori definisce «poco nitidi e poco equi».
La pubblicazione del rapporto della commissione Giovannini sugli stipendi record dei politici nostrani ha riacceso i riflettori sullo scandalo dei cosidetti «portaborse», un termine da prima Repubblica che non rende merito all’esercito di donne e uomini, spesso giovani e preparatissimi, che lavorano nella semioscurità  alla stesura di leggi e ordini del giorno, mozioni e interrogazioni e magari tengono i contatti con la stampa, scrivono i comunicati, coordinano le segreterie dei rispettivi onorevoli…
Preziosi, insostituibili. Eppure trattati come fantasmi. Senza un contratto, in Parlamento non possono entrare. Le commissioni per loro sono off limits e tanti devono varcare i portoni dei Palazzi con al collo il cartellino «ospite». Sottopagati o non pagati affatto, sfruttati, mobbizzati e a volte persino ricattati: «O così, o fuori di qui!». Un’indecenza tutta italiana, che i diretti interessati raccontano non senza paura di ritorsioni sul già  precario posto di lavoro. «Un giorno del 2009 mi chiama un’amica — ricorda Francesco Comellini, da anni al fianco dell’onorevole Giuliano Cazzola del Pdl — e, tra i singhiozzi, mi dice che il suo deputato l’ha licenziata perché con quei soldi doveva pagarci il mutuo di casa». Proprio così, le rate del mutuo con i soldi dell’indennità  destinata ai collaboratori: quei 3.690 euro al mese per ogni deputato (e 4.180 per ciascun senatore) che i parlamentari ricevono come rimborso forfettario «per le spese inerenti al rapporto tra eletto ed elettori». E che intascano anche quando non spendono.
I questori di Camera e Senato sono al lavoro per «eliminare l’anomalia italiana», conferma l’onorevole Gabriele Albonetti. Eppure, se è vero che molti parlamentari pescano dalla voce «collaboratori» i soldi che versano al partito, superare le resistenze dei gruppi non sarà  facile. Intanto le carte bollate si sprecano. È agli atti la sconfitta di Gabriella Carlucci (ex Pdl ora Udc) battuta dalla sua ex assistente, cui il giudice nel 2009 ha riconosciuto 10.170 euro di indennizzo per tre anni di lavoro irregolare. E in tribunale, stando alle cronache, hanno fatto una sosta loro malgrado anche il dipietrista Francesco Barbato, il democratico Giuseppe Lumia e il noto attore/onorevole Luca Barbareschi. 
Eppure qualche virtuoso c’è. «Io credo di essere l’unico collaboratore che, in questa giungla di contratti e paghe indecenti, ha una consulenza professionale certificata — racconta Comellini —. Portaborse? Tra noi c’è gente che ha quattro lauree…». Eppure anche l’assistente di Cazzola ha fatto la sua dura gavetta. Per anni ha lavorato in nero per la repubblicana Luciana Sbarbati, che lo aveva inquadrato «come volontario». Finché le ha fatto causa ed è in attesa di sentenza d’appello: «Ho portato in tribunale 1.800 documenti e 70 testimoni». Eppure sarebbe così semplice dare un volto e una dignità  a chi lavora dietro le quinte della politica. «Io mi batto per il riconoscimento di una professione delicatissima — spera nella svolta Marcello Spirandelli, laureato in amministrazione pubblica e da sei anni ombra del l’ex sottosegretario Luca Bellotti —. Molti di noi hanno contratti da collaboratori domestici. La dignità , almeno quella, ci deve essere riconosciuta». 


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