«Monti è la vera destra storica»

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La sua relazione sulla democrazia partecipata comincia con un saggio di humour made in Uk, strappando una sonora risata alla sala gremita. Più tardi, una nuova provocazione sul filo dell’ironia: «Chi avrebbe mai pensato che a Napoli potesse succedere una cosa così?»
Sono passati dieci anni dal movimento dei professori, di cui lei faceva parte, sorto contro la scesa in campo di Berlusconi. Come è cambiato l’impegno di quella parte di mondo accademico?
Eravamo un gruppo eterogeneo, c’erano moderati accanto a persone di sinistra, quel mix – in sé – era una bella cosa. Solo che la maggior parte di noi interpretava l’impegno politico in chiave difensiva, proteggere la democrazia contro l’attacco rappresentato dal signor B. Un gruppo minoritario, in cui c’ero anch’io, avrebbe voluto andare oltre, arricchire la democrazia. Credo che questo ci riconnetta ai professori di Napoli presenti al Forum. È raro trovare in Italia una tale passione civica, competenza e informazione come traspare, ad esempio, nella relazione introduttiva di Alberto Lucarelli.
I professori sono anche al governo…
Forse Monti è un novello Cavour, sicuramente è il rappresentante della destra storica. I primi atti di governo sono molto lontani dall’equità  sociale, ma comunque hanno un’idea molto precisa dell’Italia. Ad esempio la battaglia sulla semplificazione delle procedure burocratiche fatta in questo modo – non alla Brunetta, per intenderci – può portare un vasto consenso, nel paese europeo in cui i cittadini sono afflitti dalla burocrazia più farraginosa. È Monti che ha costruito in poco tempo una vera destra classica.
Il potere di attrazione del premier, il suo profilo di tecnico, può arrivare al punto di far coagulare il centro con i Democrat quando si andrà  a votare?
Non lo so, sono uno storico e non ho la sfera di cristallo, ma mi pare difficile che il Pd possa andare con il Pdl e Casini. Prima o poi capiranno che dovranno entrare in uno schieramento compatto di centrosinistra.
Come si può costruire la democrazia partecipata?
Sul tema c’è una retorica insopportabile. La democrazia partecipata piace a tutti, tranne a D’Alema. La qualità  della prima dipende da come si coinvolge il secondo termine nel processo decisionale. Ma non come fa a Firenze il Matteo Renzi che convoca assemblee dove se ne dicono di tutti i colori e poi il sindaco dice ‘è stato molto proficuo’ e non succede niente. Non basta votare o coinvolgere la base con meccanismi a scelta casuale e non ripetibile (come per le giurie) o, all’estremo opposto, attraverso assemblee fiume che finiscono alle tre di notte, perché non è socialmente sostenibile. Il mio modello ideale è Porto Alegre: il cittadino ha la sensazione reale di decidere e verificare che le decisioni vengano accolte e non, come per i referendum, cancellate attraverso vie ‘misteriose’.
Devoono cambiare solo le istituzioni o anche i cittadini?
La democrazia partecipata presuppone, prima di tutto, un diverso modo di stare tra di noi. Bisogna lavorare su comportamenti e passioni. Rifiutare il neoliberismo nella nostra testa. Praticare passioni radicalmente diverse dalle forme politiche che assomigliano alla guerra. Restiamo a sinistra.


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