Manager pubblici, tetto agli stipendi senza deroghe

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ROMA – Torna, senza eccezioni, il tetto ai super stipendi dei manager di Stato delle amministrazioni pubbliche. Il governo Monti ha presentato ieri un decreto che annulla le deroghe presenti nel Salva Italia. La norma riporta i compensi di tutti i dirigenti di Stato al livello della retribuzione dovuta al primo presidente della Corte di Cassazione e pari a circa 310mila euro, mettendo nel mirino anche i doppi incarichi. 
Il comma 3 dell’articolo 23 ter del Salva Italia, che nel dicembre scorso aveva suscitato speranze e poi, una volta approvato, forti polemiche è stato dunque cassato. Quel comma malandrino, entrato di soppiatto nel testo finale, prendeva di petto le retribuzioni dei manager delle amministrazioni pubbliche fissandone un tetto pari ai 310 mila euro. Ma apriva la porta anche a deroghe «per alcune posizioni apicali». 
Ieri il governo ha chiuso la falla ed eliminato ogni eccezione, con lo schema di decreto che punta a ristabilire l’originaria voglia di equità . Si torna, quindi, al senso originario della norma: i dirigenti di peso e meglio retribuiti in ministeri e apparati pubblici, una volta approvato il decreto, non potranno incassare più del primo presidente della Suprema Corte. Diverso il discorso per i manager di società  pubbliche non quotate i cui compensi (si pensi al milione e mezzo di euro l’anno dell’ad di Poste Massimo Sarmi), saranno regolati e limitati da non meglio precisate fasce proporzionali alla dimensione dell’azienda. Restano invece fuori dal raggio d’azione del decreto, tutti i dirigenti dei gruppi nazionali quotati in Borsa, come Eni o Enel. 
Qualche esempio: il Ragioniere generale dello Stato Mario Canzio, compenso da 516 mila euro annui, dovrà  “accontentarsi” di 310mila euro, con una sforbiciata di 206mila euro, il 40% in meno. Raffaele Ferrara, direttore dei Monopoli di Stato, dovrà  invece accettare una riduzione forse non drammatica dello stipendio ma pur sempre importante e pari a 79mila euro, dagli originari 389mila (meno 20%). E dovrà  tirare la cinghia, si fa per dire, pure il numero uno dell’Antitrust Giovanni Pitruzzella che dovrà  rinunciare a 165mila euro annui (meno 35%) proprio a causa di Mario Monti e del suo decreto che nei prossimi giorni verrà  esaminato dalle commissioni parlamentari. 
«Il governo è pienamente consapevole dell’importanza del contenimento dei costi degli apparati burocratici». Inizia così il comunicato di Palazzo Chigi che punta sul «buon esito dell’operazione» da cui «dipendono sia il successo dei programmi di risanamento dell’economia, sia quello degli stimoli alla crescita e competitività ». 
Il provvedimento, spiega Monti, si fonda su due principi: «Il trattamento economico complessivo del primo presidente della Corte di Cassazione diventa il parametro di riferimento per tutti i manager delle pubbliche amministrazioni e in nessun caso l’ammontare complessivo delle somme loro erogate da pubbliche amministrazioni potrà  superare questo limite». Allo stesso tempo, nel caso dei «dipendenti collocati fuori ruolo o in aspettativa retribuita, presso altre pubbliche amministrazioni, la retribuzione per l’incarico non potrà  superare il 25% del trattamento economico fondamentale».


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