Quell’implicito, ingiusto «sussidio» che stiamo pagando alla Germania

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Che fare per non pagare interessi che alla lunga «stenderebbero» chiunque, Germania inclusa? Quei tassi non sono dovuti a timori sull’insostenibilità  del debito, ma alla paura che la crisi sfoci nella rottura dell’Unione monetaria e nel ritorno di ciascuno a una propria valuta. A pagare quei tassi è solo chi, ove mai dovesse uscire dall’euro, danneggerebbe i creditori, costretti ad accettare rimborsi in valute «deboli», come quella che succedesse alla lira. Certo non teme la rottura dell’euro chi semmai sarebbe rimborsato in un nuovo Deutsche Mark! I «mercati» vanno convinti che la loro paura, o scommessa, sulla fine dell’euro è infondata, ma soprattutto perdente: perché chi la fa rischia di farsi male.
Ora si discute l’aumento delle munizioni della European Financial Stability Facility (Efsf) e del suo successore, lo European Stability Mechanism (Esm), dagli attuali 440 miliardi a 750 o 1.000. Quel che conta non è la dimensione dei fondi, ma chiarire a quali condizioni essi opereranno; il diavolo è nei dettagli. Il 21 luglio scorso il Consiglio europeo ha deciso che Efsf e Esm potranno comprare sul mercato titoli del debito pubblico già  emessi alla luce «di un’analisi della Bce che riconosca l’esistenza di circostanze eccezionali sul mercato finanziario e di rischi per la stabilità  finanziaria, in base a una decisione per mutuo consenso degli Stati membri di Efsf/Esm». 
Le stesse parole si leggono sul sito dell’Efsf. Peccato che da fine luglio siano passati sei mesi (e che mesi!) senza che nulla sia stato fatto per attuare quell’impegno, nonostante il solenne annuncio estivo che le relative procedure sarebbero iniziate al più presto. Peggio, oggi trapela fra le righe della guerra sotterranea in atto un’interpretazione restrittiva, per cui Efsf/Esm potrebbero comprare titoli sul mercato solo a una condizione, assente nel comunicato del 21 luglio: che il Paese emittente dei titoli si assoggetti ad un «programma di risanamento», simile a quelli negoziati con il Fondo monetario internazionale. Questi cavilli (qualcuno li direbbe mediterranei), questi annunci solenni seguiti da ritirate tattiche, legate cioè a contingenze elettorali, più che strategiche, alimentano la sfiducia dei mercati: il contrario di quanto serve.
È giunto il momento di alzare un pò la voce, cosa che pur nella pacatezza — istituzionale e per fortuna anche caratteriale — i nostri rappresentanti staranno facendo. Per ricordare, come Marcello De Cecco e altri in una lettera al Financial Times, che così non si risolvono gli squilibri globali alla base della crisi. Per attuare davvero quel che si è annunciato, senza porre sempre nuove condizioni. Per far presente l’assurdità  della situazione attuale: i mercati, che esigono da noi rendimenti altissimi, sono pronti a pagare — anziché esser pagati — per far credito alla Germania. In tempi normali, la sua tripla A le darebbe diritto a pagare su un titolo decennale, diciamo il 2,5%; essa sta dunque fruendo di un sussidio — implicito ma tangibilissimo — di 50 miliardi annui a regime. Più o meno il «sovrapprezzo» che paghiamo noi oggi, rispetto a quanto è spiegato dal nostro debito. Tali differenze sono dovute solo al timore del crollo dell’euro; questa paura, o convinzione, va sconfitta; deve perdere soldi chi punta sul fatto che l’incendio, oggi ai margini, distruggerà  la casa comune. Non è questo il tempo per disegnare minuziosamente la casa ideale di domani!
Se si parla di denari, oggi chi sta aiutando chi, pur se involontariamente? Il cancelliere tedesco ha detto a Davos: «Solidarietà  è tener fede agli impegni reciproci», aggiungendo: «Dobbiamo superare gli ostacoli che ci impediscono di avere un mercato unico». Angela Merkel sarà  una «politica pura» — checché ciò significhi — ma Monti le chiederà  se crede di star tenendo fede agli «impegni reciproci» del 21 luglio; e che «mercato unico» è mai quello in cui imprese e cittadini di uno Stato che ha alfine messo in ordine i conti debbono pagare il denaro quasi il 5% più delle imprese e dei cittadini di altri Stati dello stesso «mercato unico»? 
Anche la Bce forse non accetterà  ancora a lungo che sia così plateale la mancata trasmissione degli impulsi della politica monetaria nell’ambito del «mercato unico». Non è nazionalismo, ma europeismo chiedere se davvero tale situazione garantisce la stabilità  dei prezzi in tutta l’eurozona: che è il mandato della Bce. A questo pensa Monti quando chiede che «la governance dell’eurozona evolva in modo da consentire una ragionevole riduzione dei tassi». Forse sarebbe più chiaro dire, con il direttore generale di Banca d’Italia, Saccomanni: «Il differenziale dei tassi è un problema sistemico che tocca all’Europa risolvere». Come ha scritto sul Sole 24 Ore (25 gennaio 2012) Pierluigi Ciocca, ex vicedirettore generale della Banca d’Italia, la soluzione potrebbe essere: «Bilanci pubblici costituzionalmente vincolati all’equilibrio e una banca centrale cui si dia la facoltà  â€” non l’obbligo — di evitare, nell’eurozona, l’illiquidità  di Stati solvibili». Appunto. 
Bisognerà  enunciare chiaramente tali verità , non solo nelle felpate riunioni di Bruxelles: senza aizzare l’antieuropeismo, Monti saprà  dire che, nonostante egli non abbia ambizioni elettorali, l’anno prossimo anche in Italia si vota. E un sostegno forte — non solo in mozioni una tantum, ma nel lavoro quotidiano — di Parlamento e partiti al governo dissiperebbe il timore di molti: che una volta passata la festa, i «soliti italiani» gabberebbero il santo. Siamo finalmente tornati a essere un Paese serio. E lo faremo pesare.


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