Rivoluzione al Museo

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«Un museo non può essere solo un luogo dove si fanno mostre. Mi piace l’idea di un posto che somigli più a un laboratorio, a un’officina viva. Un museo deve essere splendido quando ha denaro ed eroico quando non ne ha». Cristiana Collu dice così e sa che dal primo febbraio passerà  dall’eroismo allo splendore: lascia il “piccolo” Man di Nuoro, che ha guidato per 14 anni, fin dalla fondazione, e approda al Mart di Rovereto, il più importante spazio italiano dedicato all’arte contemporanea che adesso festeggia i dieci anni (è nato nel 2002). Riceve il testimone dalla direttrice di sempre, Gabriella Belli, ora a capo dei Civici Veneziani. «A lei ho detto subito che in questo mestiere non si può desiderare il museo d’altri. Altrimenti significa che con la testa non ti trovi davvero dove sei. Per questo avevo molte remore nel partecipare alla selezione del Mart». E invece Collu la selezione per il Mart l’ha vinta. Il suo è risultato il primo tra i 55 profili considerati dalla multinazionale Korn/Ferry International, a cui il consiglio di amministrazione del Mart, presieduto da Franco Bernabè, aveva affidato la ricerca dei candidati. In 31, tra curatori e storici dell’arte, si sono presentati spontaneamente. Gli altri 24 sono stati contattati. «La scelta è caduta su di lei per il lavoro che è riuscita a fare al Man. Per il modo in cui, a Nuoro, dal nulla, ha messo in relazione un museo nuovo con il territorio», dice ora Bernabè. Allora, quando ha iniziato, Collu, che è nata a Cagliari, aveva 27 anni. Il 27 febbraio ne compirà  43.
Cosa significa per lei diventare direttore del Mart?
«Significa ricevere un’eredità . Ho incontrato il gruppo che fa muovere questa macchina: c’è un grande spirito di squadra. Il Mart vanta professionisti molto competenti. Non voglio fare il curatore, ma mantenere una posizione di equidistanza come ho fatto al Man. Credo che in Italia manchi la figura di direttore di museo tout court. Si confonde sempre con quella degli storici e dei critici d’arte che poi arrivano a dirigere i musei. Ho molte curatrici e conservatrici da coinvolgere: vorrei costruire uno staff di persone il più possibile felici, se non è una parola tabù».
Ha in mente un museo “modello”? 
«Il Man di Nuoro è stato il mio primo lavoro, non avevo in mente nessun modello. Venivo da una scuola spagnola per la formazione di direttori di museo che guardava alla cultura anglosassone. In realtà , l’idea di modello non mi interessa. Preferisco il concetto di “esempio”. Perché un esempio si applica più facilmente a una realtà  specifica e si adatta come un lavoro di sartoria. Posso guardare a tanti musei, ma se non ho idea della comunità  che c’è attorno al museo dove lavoro, nessun modello risulterà  utile. Penso che sia sempre importante considerare il posto dove sei il centro del mondo: Nuoro, poi, è la città  meno provinciale d’Italia. E ora posso dire lo stesso di Rovereto».
Il Man, come il Madre di Napoli e il Riso di Palermo, vive un momento di crisi. Si è parlato anche di chiusura.
«Sì, a un certo punto sembrava che stessi lasciando la nave che affonda. Ma non è così, c’è stata una spiacevole coincidenza. In dicembre è stato lanciato un appello poi raccolto: il Man, da provinciale, diventerà  museo regionale. Una norma in finanziaria ne garantirà  il funzionamento per il prossimo triennio. Si parla tanto di crisi dei musei, ma la crisi dovrebbe essere connaturata all’arte: è un’opportunità  per ripensare, provare a studiare altre modalità . È un momento di rottura».
C’è un incontro che l’ha spinta verso il mondo dell’arte?
«Nel 1994, ero a Madrid. Andai al Reina Sofia a vedere una mostra straordinaria: Cocido y crudo curata da Dan Cameron, che a partire, ma poi discostandosi, dalle riflessioni diClaude Lévi-Strauss delineava la sua idea di contaminazione,mescolanza, comunità , prossimità . C’erano grandi nomi e moltissime opere pensate per l’occasione: nel museo circolava l’idea che si fosse in presenza di una mostra epocale. Di fatto nella classifica del Reina rimane ancora oggi la numero uno».
Come deve essere una buona mostra?
«Una mostra di indagine. Deve cercare di far diventare il museo un luogo dove le cose vengono messe in crisi. Una mostra di arte contemporanea, in particolare, deve fare “archeologia del presente”. Il passato non è sempre lontano: nella rilettura sincronica dell’arte c’è molto da scoprire. E il Mart in questo fa al caso perché è un museo di arte moderna e contemporanea: permette una oscillazione tra passato prossimo e presente. Non mi piacciono le mostre che non sono audaci, che sono solo storiche o troppo didascaliche. Quelle che sono traduzioni di cataloghi. Ma vorrei che il Mart diventasse non tanto la casa delle Muse, ma quella degli artisti ispirati dalle Muse. Non bisogna considerare il museo solo come “mostrificio”». 
In che senso?
«Mi interessa l’opera come processo, esperienza, mi piacerebbe che il museo diventasse uno strumento suonato dagli artisti. La mostra non deve essere l’unico rapporto tra il museo e l’artista. La conclusione di questa relazione potrebbe essere un’esperienza totalmente diversa, anche fuori dalle mura del museo. Vorrei che gli artisti abitassero il museo e il territorio su cui il museo insiste. Il concetto di abitare mi è molto caro: è l’unico modo per capire i luoghi».
Recentemente David Hockney ha accusato Damien Hirst perché fa realizzare le sue opere da altri…
«Dovremmo finire di concentrarci sull’autenticità  dell’opera come fosse la cosa in sé. L’opera d’arte va considerata per quello che rappresenta e significa per il presente. Poi, su Hockney e Hirst, un giorno magari scopriremo che erano d’accordo e che si trattava di pubblicità ».
Coltiva il sogno di una retrospettiva dedicata a un artista che ammira?
«Mi interessa fare il mio mestiere che è quello di dirigere un museo, non curare le mostre, ma definire linee guida, far funzionare il dispositivo in maniera esemplare insieme agli altri che ci lavorano».
Tra le mostre che ha “ereditato” per quest’anno, oltre a quella sul Postmoderno, ce n’è una dedicata ad Alice nel Paese delle meraviglie. L’ha riletto?
«Sto rileggendo un saggio che si ricollega a Carroll: Casco dal sonno di Jean-Luc Nancy. Alice non l’ho riletto. Ma l’ho rivisto in tutte le versioni con mia figlia Sofia. Quella che preferisco in questo momento è Alice in Wonderland di Tim Burton. Mi piace quando si dice ad Alice “Non sei più moltosa, hai perso molto della tua moltezza”. La “moltezza”, per me che amo i neologismi, è un bel concetto: rappresenta la spinta che permette ad Alice di ricominciare la sua avventura».


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