Se la democrazia fa a meno dei partiti

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Può funzionare una democrazia “senza partiti”? Quasi uno su due, tra gli italiani, è convinto di sì (48%). E tale opinione mette d’accordo un numero crescente di cittadini. Questo indicatore, rilevato dal rapporto annuale su Gli italiani e lo Stato, ha fatto segnare una crescita di dieci punti dal 2008 ad oggi. 
L’anno che ci lasciamo alle spalle ha reso ancora più profonda la frattura tra cittadini e politica. Quasi otto persone su dieci pensano che le cose siano ulteriormente peggiorate, nel corso del 2011, sotto il cielo della politica, e l’insofferenza si indirizza, ancor più che in passato, nei confronti del Parlamento e dei partiti. È necessario interpellare più di venticinque persone, oggi, per trovarne una disposta a dare credito ai partiti (4%). Il loro già  ridottissimo punteggio, in termini di fiducia, in dodici mesi si è addirittura dimezzato (spingendoli sempre più in fondo alla graduatoria delle istituzioni). Sembra prendere progressivamente corpo, così, l’idea che si possa “fare a meno” di essi. Tale orientamento, che sotto i 45 anni supera la soglia del 50%, suggerisce, in questa fase, almeno due chiavi di lettura.
1) Da un lato, il deficit di rappresentanza dei partiti ha allargato le istanze di coinvolgimento dei cittadini. Nel momento in cui i partiti non sono più in grado di garantire il governo per il popolo, si rafforza la domanda di governo del popolo. Questa spinta si è concretizzata, negli ultimi anni, in una crescita della partecipazione, nella nascita di nuovi movimenti, in una riscoperta della democrazia diretta. Il moltiplicarsi della mobilitazione su specifiche questioni e il successo dei quattro referendum tenutisi la scorsa primavera hanno sottolineato, parallelamente, come questa onda partecipativa abbia in larga misura scavalcato i canali più tradizionali (spiazzando gli stessi partiti).
2) Dall’altro lato, la crisi politica ed economica ha reso evidente l’incapacità  dei partiti di individuare soluzioni nell’interesse del popolo, favorendo soggetti ritenuti in grado di affrontare le emergenze che gravano sull’Italia. Non a caso, i cittadini sembrano affidarsi, in questa fase, soprattutto ad attori a-partitici: tecnici e istituzionali. Soprattutto, guardano con fiducia il Capo dello Stato, che negli ultimi mesi ha svolto un ruolo determinante nel gestire il cambio di governo, consegnando il timone del paese ad un esecutivo di esperti.
Queste due prospettive mettono l’accento sulle criticità  (e le contraddizioni) che caratterizzano, oggi, l’evoluzione della democrazia (italiana e non solo). Esse tracciano, infatti, percorsi che superano i confini della democrazia rappresentativa, e tra loro difficilmente conciliabili. La stessa esperienza del governo Monti presenta, secondo molti, tratti di “eccezionalità  democratica”. Ciò nondimeno, la sua sopravvivenza appare costantemente nelle mani delle (eterogenee) forze che lo sostengono. 
Gli attuali partiti, in sintesi, risultano allo stesso tempo troppo forti e troppo deboli: al centro di un sistema che però faticano a governare. In questo senso, le aperture ad una democrazia “senza partiti” richiamano la necessità  di contrastare l’indebolimento della stessa democrazia: un sistema che più di due italiani su tre continuano a giudicare come unica alternativa politica (sebbene nell’ultimo periodo siano cresciuti i sentimenti di indifferenza). 
Dunque, se la democrazia (rappresentativa) appare ancora “impensabile senza i partiti”, il problema è mettere a punto dei correttivi che garantiscano il suo funzionamento e la sua legittimazione: perché andare “oltre i partiti” non significhi andare “oltre la democrazia”.


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