Steve Jobs Il perfezionatore

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Poco dopo essersi sposato, nel 1991, Steve Jobs si trasferì con la moglie in una villa degli anni trenta in stile Cotswolds a Palo Alto. Jobs aveva sempre difficoltà  ad arredare i posti in cui viveva. Nella sua casa precedente c’erano solo un materasso, un tavolo e delle sedie. Per lui le cose dovevano essere perfette, e per capire a cosa corrispondesse la perfezione gli occorreva tempo. Quella volta aveva al seguito una moglie e una famiglia, ma la cosa non fece molta differenza. “Abbiamo discusso di teoria dell’arredamento per otto anni”, racconta la moglie Laurene Powell a Walter Isaac­son in Steve Jobs, la biografia del fondatore di Apple. “Passavamo un sacco di tempo chiedendoci quale fosse la funzione di un divano”.

La scelta più complicata, tuttavia, fu quella della lavatrice. Le lavatrici europee, aveva scoperto Jobs, usavano meno detersivo e meno acqua di quelle americane, ed erano più delicate con i vestiti. Ma per completare un ciclo di lavaggio ci mettevano il doppio del tempo. Che cosa avrebbe dovuto fare la famiglia Jobs? “Abbiamo passato un certo tempo, in famiglia, a discutere della scelta che volevamo fare. Siamo finiti a parlare molto di design, ma anche dei valori della nostra famiglia. Ci importava molto che la biancheria fosse lavata in un’ora invece che in un’ora e mezzo? O ci importava di più che i nostri abiti fossero più morbidi e durassero più a lungo? Ci importava ridurre a un quarto il consumo di acqua? Passammo circa due settimane a parlarne, intorno al tavolo da pranzo”.

Steve Jobs, come il libro rivela in modo chiaro, era un uomo complicato e faticoso. “Ci sono parti della sua vita e della sua personalità  che sono terribilmente complicate”, spiega Powell a Isaac­son. “Non le nasconda”. E Isaac­son, gliene va dato atto, non lo fa. Parla con chiunque abbia avuto rapporti professionali con Jobs, registrando meticolosamente conversazioni e incontri avvenuti anche venti o trent’anni prima. Jobs, scopriamo, era un prepotente. “Aveva questa eccezionale capacità  di capire esattamente qual era il tuo punto debole, di intuire che cosa ti avrebbe fatto sentire un verme e morire d’imbarazzo”, racconta una sua amica.

Jobs mette incinta la sua fidanzata, poi nega che la figlia sia sua. Parcheggia negli spazi per gli handicappati. Strilla con i dipendenti. Quando non riesce a fare di testa sua, si mette a piangere come un bambino. Lo fermano perché sta andando in macchina a centosessanta all’ora, suona rabbiosamente il clacson contro il poliziotto che ci impiega troppo tempo a compilare la multa, dopodiché riparte a centosessanta all’ora. Al ristorante, rispedisce il cibo in cucina tre volte di fila. Arriva nella sua suite d’albergo a New York per una serie di interviste e decide, alle dieci di sera, che il pianoforte va spostato, che le fragole non vanno bene, e che i fiori sono sbagliati: lui voleva delle calle. E quando a mezzanotte la sua addetta stampa torna con i fiori giusti, lui le dice che il vestito che indossa “è disgustoso”.

“Macchine e robot venivano verniciati e riverniciati sulla base di uno schema cromatico in continua revisione”, scrive Isaac­son a proposito della fabbrica che Jobs fa costruire dopo aver fondato la Next a fine anni ottanta. “I muri erano bianchi come quelli di un museo, come era stato per la fabbrica Macintosh, ma c’erano anche poltroncine in pelle da ventimila dollari e una scala progettata apposta. Jobs insistette perché la catena di montaggio, lunga cinquanta metri, fosse configurata in modo che i circuiti stampati si muovessero da destra a sinistra durante l’assemblaggio, così che il processo risultasse più gradevole alla vista di eventuali visitatori, che sarebbero stati ospitati in un’apposita galleria panoramica”.

Dalle origini
Isaac­son parte delle umili origini di Jobs nella Silicon valley, per passare poi ai primi trionfi con Apple e all’umiliante estromissione dall’azienda che aveva crea­to. Descrive poi i trionfi ancor più grandi con la Pixar e una rinata Apple, con il suo ritorno a metà  degli anni novanta, e leggendo viene naturale aspettarsi che da questo tumultuoso viaggio Jobs riemerga ingentilito e più saggio. Nemmeno per sogno. All’ospedale, poco prima di morire, passa in rassegna 67 infermiere prima di trovarne tre che gli vadano a genio. “In un’occasione, lo pneumologo tentò di mettergli una mascherina sul viso, mentre era sedato”, scrive Isaac­son. Jobs se la strappò di dosso farfugliando che non gli piaceva e che non l’avrebbe indossata. Era appena in grado di parlare, ma ordinò che gli venissero portate cinque mascherine diverse, in modo da poterne scegliere una che gli piacesse. Non gli piaceva neppure il rilevatore di ossigeno che gli avevano applicato al dito, disse ai medici che era brutto e troppo complesso.

Uno dei grandi enigmi della rivoluzione industriale è come mai sia cominciata in Inghilterra. Perché non in Francia o in Germania? Sono state proposte molte spiegazioni. La Gran Bretagna disponeva, per esempio, di grandi quantità  di carbone. Possedeva un sistema di brevetti collaudato. I costi della manodopera erano rela­tivamente alti, il che incoraggiò la ricerca di innovazioni che fossero in grado di contenerli. In un articolo pubblicato all’inizio del 2011, tuttavia, gli economisti Ralf Meisenzahl e Joel Mokyr si concentrano su una spiegazione diversa: il vantaggio in termini di capitale umano e, in particolare, di quelli che i due studiosi definiscono “perfezionatori”. Meisenzahl e Mokyr ritengono che la Gran Bretagna abbia potuto dominare la rivoluzione industriale poiché rispetto ai suoi rivali possedeva un numero assai maggiore di ingegneri e artigiani qualificati: uomini intraprendenti e creativi che presero le invenzioni cardine dell’era industriale e le perfezionarono, rifinendole, migliorandole e facendole funzionare.

Nel 1779 Samuel Crompton, un genio in pensione del Lancashire, inventò un particolare tipo di filatoio detto “mulo”, che permise di meccanizzare la produzione del cotone. Ma il vero punto a favore dell’Inghilterra fu il fatto di avere Henry Stones, di Horwich, che al mulo aggiunse dei cilindri metallici; e James Har­greaves, di Tottington, che trovò il modo di rendere più fluide l’accelerazione e la decelerazione del meccanismo; e William Kelly, di Glasgow, che capì come applicare l’energia idraulica alla torsione delle fibre; e John Kennedy, di Manchester, che adattò la macchina in modo tale da produrre filati sottili; e infine Richard Roberts, anche lui di Manchester, maestro nella creazione di macchinari di precisione, nonché perfezionatore supremo. Fu lui a creare il mulo automatico: una reinvenzione precisa, veloce e affidabile del macchinario ideato da Crompton. Furono uomini come questi, sostengono i due economisti, a fornire le “microinven­zioni necessarie per rendere le macroinvenzioni altamente produttive e redditizie”.

Steve Jobs era un Samuel Crompton o un Richard Roberts? Nella pioggia di elogi seguiti alla sua morte, è stato ripetutamente definito come un grande visionario e inventore. Ma la biografia di Isaac­son sembra suggerire che fosse più che altro un perfezionatore. Le caratteristiche distintive del Mac­intosh, per esempio – il mouse e le icone sullo schermo – le prese dagli ingegneri della Xerox dopo la sua celebre visita ai laboratori del 1979. I primi lettori portatili di musica digitale uscirono nel 1996. Apple mise in commercio l’iPod, nel 2001, perché Jobs aveva visto i lettori disponibili sul mercato ed era giunto alla conclusione che “facevano davvero schifo”.

Gli smartphone arrivarono per la prima volta negli anni novanta. Jobs presentò l’iPhone nel 2007, più di dieci anni dopo, perché, scrive Isaac­son, “aveva notato qualcosa di strano nei cellulari presenti sul mercato: erano tutti delle schifezze, proprio come i lettori mp3 di una volta”. L’idea dell’iPad era venuta da un ingegnere di Microsoft, sposato con un’amica di famiglia, il quale aveva invitato Steve alla festa per i suoi cinquant’anni: “Questo tizio continuava a vantarsi con me di come la Microsoft avrebbe completamente cambiato il mondo con il suo software per tablet, eliminando tutti i computer portatili, dicendo che la Apple avrebbe dovuto ottenere la licenza per questo soft­ware. Ma il dispositivo era tutto sbagliato: funzionava con uno stilo. Se hai uno stilo, sei morto. Probabilmente era la decima volta che me ne parlava. Ero così stufo che tornai a casa e mi dissi: ‘Vaffanculo, facciamogli vedere come può essere davvero un tablet’”.

Campione di plagio?
Perfino all’interno della Apple, Jobs era noto come uno che si prendeva i meriti di idee altrui. Jonathan Ive, il designer che ha progettato l’iMac, l’iPod e l’iPhone, racconta a Isaac­son: “Steve è capace di passare in rassegna le mie idee e sentenziare: ‘Questa non va, questa non è un granché, questa mi piace’. Poi, quando sei in riunione, lo senti parlare di quell’idea come se fosse sua”.

La sensibilità  di Jobs era editoriale, non creativa. Il suo dono era quello di saper prendere ciò che aveva davanti a sé – il tablet con lo stilo – e migliorarlo radicalmente. Dopo aver visto i primi spot televisivi dell’iPad, rintracciò il copywriter, James Vincent, e gli disse: “Le tue pubblicità  fanno schifo”. “Be’, tu cosa vuoi?”, ribatté Vincent. “Non sei ancora riuscito a dirmi cosa vuoi”. “Non lo so”, gli rispose Jobs. “Devi portarmi qualcosa di nuovo. Niente di quel che mi hai fatto vedere ci si avvicina neppure vagamente”. Vincent replicò di nuovo e Jobs perse le staffe. “Ha cominciato a urlare”, ricorda Vincent. Anche Vincent poteva lasciarsi prendere dalla furia e lo scambio tra i due esplose. Quando Vincent urlò: “Devi dirmi che cosa vuoi”, Jobs a sua volta gli urlò: “Devi farmi vedere della roba buona e lo saprò quando la vedrò”.

Lo saprò quando lo vedrò. Era questa la filosofia di Jobs e, fino a quando non vedeva la cosa in questione, il suo perfezionismo lo manteneva in una tensione costante. Osservando le barre del titolo – le intestazioni che si trovano nella parte alta di finestre e documenti – progettate dal suo team di sviluppatori per il primo Mac­intosh, decise che non gli piacevano. Costrinse quindi gli sviluppatori a realizzarne un’altra versione, poi un’altra ancora, per un totale di circa venti rielaborazioni, impuntandosi su un perfezionamento dopo l’altro, e quando gli sviluppatori protestarono dicendo di avere di meglio da fare, lui gridò: “Ma ve lo immaginate di guardare questa roba ogni giorno? Non è un dettaglio da poco. È una cosa che va fatta bene”.

La sostanza della tesi di Meisenzahl e Mokyr è che questo tipo di perfezionamento è essenziale per il progresso. James Watts inventò il moderno motore a vapore raddoppiando l’efficienza dei motori che l’avevano preceduto, ma quando intervennero i perfezionatori, l’efficienza del motore a vapore in un batter d’occhio quadruplicò. Samuel Crompton fu responsabile di quella che Meisenzahl e Mokyr definiscono “l’invenzione probabilmente più fruttuosa” della rivoluzione industriale. Eppure, il momento cruciale nella storia del mulo giunse qualche anno dopo, all’indomani di uno sciopero dei lavoratori del cotone. I proprietari delle fabbriche cercavano un modo per sostituire gli operai non specializzati, e avevano bisogno di un mulo automatico, che non avesse bisogno del controllo del filatore.

Chi fu a risolvere il problema? Non Crompton, uomo privo di ambizione, il cui unico rammarico era che l’interesse dell’opinione pubblica gli impedisse di mantenere il proprio isolamento e “raccogliere indisturbato i frutti del suo ingegno e della sua perseveranza”. A trovare la soluzione fu il perfezionatore supremo, Richard Roberts, che nel 1825 produsse un primo prototipo per poi arrivare, nel 1830, a una soluzione superiore. Nel giro di poco tempo, il numero di fusi presenti in un mulo tipico balzò da cento a mille. Il visionario parte dal foglio di carta bianco, e di lì reinventa il mondo. Il perfezionatore eredita cose che già  esistono, e procedendo per tentativi le avvicina alla perfezione: un compito non meno importante.

Larry Ellison, amico di Jobs e fondatore di Oracle, aveva un jet privato, di cui aveva progettato gli interni con grande cura. Un giorno Jobs decise che anche lui voleva un jet privato. Cominciò a studiare quel che aveva fatto Ellison, quindi decise di riprodurre tutto il progetto dell’amico: stesso jet, stessa riconfigurazione, stesso tipo di porte a separare le cabine. Però non proprio tutto il progetto. Tra gli scomparti del G-5 di Ellison, per esempio, “c’era una porta che si apriva e chiudeva con due pulsanti diversi”, scrive Isaacson. “Jobs si impuntò per ottenere lo stesso risultato con un solo pulsante. L’acciaio lucido dei pulsanti, inoltre, non gli piaceva, così li fece sostituire con pulsanti in metallo opaco”. Arruolata la designer di Ellison, “in breve tempo cominciò a farla impazzire”. Ovviamente. Il grande successo, nella vita di Jobs, è stata l’efficacia con cui è riuscito a mettere le sue manie – la sua petulanza, il suo narcisismo e la sua scortesia – al servizio della perfezione. “Guardo il suo aereo e il mio”, ammette Ellison, “e ogni modifica fatta da lui è un miglioramento”.

Il momento in cui Isaacson vide Steve Jobs più arrabbiato fu quando cominciò l’ondata di telefoni Android, che montavano il sistema operativo sviluppato da Google. Jobs considerava quei portatili, con i loro touchscreen e le icone, una copia dell’iPhone. Decise di fargli causa. Racconta: “La nostra denuncia dice: ‘Google, ci hai rubato l’iPhone’. Furto con scasso. Dovesse costarmi l’ultimo respiro e l’ultimo centesimo dei quaranta miliardi di dollari che la Apple ha in banca, raddrizzerò questo torto. Voglio distruggere Android perché è un furto. Sono disposto a un conflitto termonuclea­re. Loro sono spaventati a morte, perché sanno di essere colpevoli. A parte il motore di ricerca, tutti i prodotti Google – Android, Google Docs – sono merda”.

Negli anni ottanta, Jobs ebbe una reazione identica quando Microsoft mise in circolazione Windows. Il loro sistema operativo usava la stessa interfaccia grafica, basata sulle icone e sul mouse, del Macintosh. Jobs era scandalizzato, e convocò Bill Gates nella sede Apple nella Silicon valley. “L’incontro avvenne nella sala riunioni di Jobs, dove Gates si trovò circondato da dieci dipendenti Apple ben felici di assistere al confronto. ‘Mentre Jobs urlava con Gates, io guardavo affascinato’, dice Hertzfeld. Jobs non deluse le sue truppe. ‘Ci stai derubando!’, gli gridò. ‘Io mi sono fidato di te e tu ci derubi!’. Hertzfeld ricorda che Gates se ne stava seduto tranquillo, guardando Steve negli occhi, prima di ribattere, con la sua voce stridula, quello che sarebbe diventato un ritornello: ‘Be’, Steve, penso che ci sia più di un modo per guardare alla faccenda. Abbiamo tutti e due questo ricco vicino di casa, il signor Xerox, e io sono entrato di nascosto in casa sua per rubargli il televisore. Ma mi sono accorto che l’avevi già  rubato tu’”.

Jobs era uno che prendeva le idee degli altri e le modificava, ma non gli piaceva subire lo stesso trattamento. Nella sua mente, quel che faceva lui era speciale. Nel 1983, convinse il boss della Pepsi-Cola John Sculley a entrare nella Apple come amministratore delegato, chiedendogli: “Vuoi passare il resto della tua vita a vendere acqua zuccherata, o vuoi avere la tua occasione per cambiare il mondo?”. Quando Jobs contattò Isaacson perché scrivesse la sua biografia, sulle prime lui pensò (“un po’ per scherzo un po’ sul serio”) che Jobs si fosse accorto che i suoi due libri precedenti erano su Benjamin Franklin e Albert Einstein, e che lui “si considerasse il successore naturale di quei due personaggi”.

L’architettura del software Apple è sempre stata chiusa. Jobs non voleva che l’iPhone e l’iPad venissero “aperti” e maneggiati, perché ai suoi occhi erano perfetti. Al più grande perfezionatore della sua generazione, l’idea di essere perfezionato non andava.

L’odiato Bill
Forse è per questo che, tra tutti i suoi contemporanei, quello che più lo infastidiva era Bill Gates. Gates rifiutava in toto l’aura romantica del perfezionismo. A più riprese, Isaacson chiede a Jobs di Gates, e lui non si trattiene dalle stoccate gratuite. “Bill è sostanzialmente privo di immaginazione”, dice, “e non ha mai inventato niente; è per questo che sono convinto che oggi sia più a suo agio con la filantropia che con la tecnologia. Non ha fatto altro che rubare idee agli altri”.

Dopo quasi seicento pagine, il lettore riconoscerà  questo comportamento come tipicamente jobsiano, nel suo essere equamente intuitivo, malevolo e megalomane. È vero che Gates oggi è più interessato a sconfiggere la malaria che a curare l’ennesima versione di Word, ma questo non è sinonimo di carenza d’immaginazione. La filantropia, se praticata sulla scala di Gates, incarna l’immaginazione nella sua forma più alta. Per contro, la visione di Jobs, per quanto brillante e perfetta, è anche piuttosto limitata. È stato un perfezionatore fino all’ultimo, eternamente impegnato ad affinare lo stesso territorio che aveva rivendicato fin da giovane.

Mentre la sua vita si avviava al termine, e il cancro gli invadeva il corpo, ciò che più l’ha appassionato è stato progettare la nuova sede di Apple a Cupertino, un complesso destinato a occupare trecentomila metri quadri, nei cui dettagli si è buttato anima e corpo. “Jobs continuava a sfornare nuove idee, in qualche caso forme completamente diverse”, scrive Isaacson. Era ossessionato dal vetro, e aveva continuato a elaborare la formula delle grandi vetrate degli Apple Store. “Non ci sarebbe stata nemmeno una vetrata diritta. Sarebbero state tutte curve, e unite senza soluzione di continuità . Il cortile centrale aveva un diametro di quasi 250 metri (più di due isolati di una tipica città  americana). Con una serie di sovrapposizioni, Jobs mi mostrò che avrebbe potuto contenere piazza San Pietro”.

Gli architetti avrebbero voluto che le finestre si potessero aprire. Jobs disse di no. L’idea che le persone potessero aprire le cose “non gli era mai piaciuta: ‘Si dà  alle persone solo la possibilità  di combinare casini’”.

Traduzione di Matteo Colombo.

Internazionale, numero 931, 13 gennaio 2012

Malcolm Gladwell è un giornalista canadese. Il suo ultimo libro è Fuoriclasse. Storia naturale del successo. Questo articolo è una recensione del libro Steve Jobs, di Walter Isaacson. È uscito sul New Yorker con il titolo The tweaker.


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