Tullio De Mauro: “Così Croce mi insegnò a non essere più fascista”

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Da Saussure e Wittgenstein fino all’ordinamento dell’ultima scuoletta di provincia, gli ottant’anni di Tullio De Mauro (li compie il prossimo marzo) sono una lunga cavalcata dalle vette delle discipline filosofiche e linguistiche alle tabelle che drammaticamente attestano quanto analfabetismo, primario e di ritorno, ancora affligga il nostro paese. De Mauro, che Linguistica generale ha insegnato per decenni e per quasi due anni è stato ministro dell’Istruzione, torna ora dalla Sorbona dove l’hanno anche festeggiato, passando in rassegna i suoi studi, ma dove pure sono rimbalzate quelle cifre che ci inchiodano, «e di cui sulla stampa si parla per un giorno appena e nel governo e nei partiti neanche per un giorno», dice strizzando gli occhi offesi dal fumo della sigaretta. I dati, appunto, i numeri, i diagrammi che ogni buon umanista si dice dovrebbe bandire e che invece lui macina quanto le desinenze latine, e forse di più.
Per il suo compleanno esce anche la seconda parte di una specie d’autobiografico dizionario, Parole di giorni un po’ meno lontani (il Mulino, pagg. 196, euro 15), che dopo gli anni dell’infanzia percorre quelli dell’adolescenza. 
Lei, professore, fino a quindici anni si dichiarava fascista.
«Fascista di origine familiare. Dopo l’8 settembre, come in molte famiglie della piccola e media borghesia meridionale, anche nella mia scattò una reazione moralistica contro la monarchia. Spinse soprattutto mio fratello Mauro alla sciagurata decisione di arruolarsi nella Decima Mas».
Suo fratello Mauro suscitava su di lei grande fascino?
«Era un giocherellone, un tornado. Mi portava i libri da leggere. E fra i primi, memorabile, Timpetill, la città  senza genitori di Manfred Michael, che raccontava una storia profondamente democratica, quella dei bambini che ricostruiscono una comunità  dal basso».
Però, appunto, aderì alla Repubblica Sociale.
«Raccontare queste vicende mi costa molto stento. Lo vedemmo sparire. Per la Decima Mas fece l’addetto stampa. Con puntigliosità  ho ricostruito il processo cui fu sottoposto, la condanna in primo grado, quindi l’assoluzione per insufficienza di prove e infine per non aver commesso il fatto».
Poi Mauro De Mauro va a Palermo, fa il giornalista a L’Ora, quotidiano vicino al Pci, e si occupa di mafia. Nel 1970 viene sequestrato e di lui non si saprà  più nulla. Lei che idea ha sulla sua morte?
«Ora c’è un processo a Palermo. In primo grado Totò Riina è stato assolto, vedremo l’appello. La pista seguita, al di là  delle responsabilità  personali, è quella dei misteri dietro l’attentato a Enrico Mattei, sui quali Mauro stava lavorando». 
Torniamo a lei. Che cosa le fece cambiare idea sul fascismo?
«Ero già  in bilico. Presi in mano la Logica di Benedetto Croce per vedere che cosa diceva questo pericoloso e notissimo antifascista. Fu comunque il leggere che fece breccia in quella rozzezza culturale e mentale». 
Lei fu scolaro diligente?
«Fui bocciato all’esame di quinta ginnasiale. Mi servì a capire quanto le interrogazioni orali fossero squilibrate: bastava una smorfia facciale per precipitare l’alunno in uno stato confusionale. Quando decisi di fare l’insegnante, presi l’impegno di assegnare sempre tesine scritte». 
Il suo maestro all’università  è stato Antonino Pagliaro.
«Insegnava Glottologia. Era stato fascista, epurato e poi riammesso all’insegnamento. Ma grande studioso. Pagliaro conosceva lo strutturalismo e le sue lezioni erano introdotte da una citazione di Ferdinand de Saussure. Fu il primo a segnalare le riflessioni di Wittgenstein sul linguaggio. Con un suo assistente, Mario Lucidi, che era anche un grande matematico, parlavamo di Roman Jakobson, di Louis Hjelmslev, dei linguisti russi, praghesi e americani».
Che in Italia non circolavano. Perché?
«Perché il linguista doveva occuparsi solo di lingue accertatamente morte: sanscrito, ittito, al massimo germanico medievale. Quando invitammo André Martinet, lo storico della lingua Alfredo Schiaffini se ne uscì con un “Ma non è un linguista, è un ingegnere”».
Sulla linguistica vigeva un pregiudizio umanistico: era troppo vicina alle scienze esatte?
«Quando ottenni la libera docenza, i miei esaminatori scrissero che, nonostante gli interessi filosofici, ero un buon linguista. Lo sforzo di dare una forma ipotetico-deduttiva alle teorie, di occuparsi di questioni funzionali era ritenuto mestiere da ingegneri».
Valse una questione di orgoglio nazionale?
«Anche, ma non molto. Più o meno lo stesso accadde in Francia». 
E Croce?
«La sua tesi sull’unità  di linguistica ed estetica si risolveva a vantaggio di quest’ultima. Ma le sorti di un movimento culturale non dipendono immediatamente da una singola posizione teorica. Croce poi aveva grande attenzione al rapporto tra esprimersi individuale e norma linguistica». 
A un certo punto cercarono di radiarla, lei giovane assistente, dall’università .
«Sì, all’Orientale di Napoli. Ero accusato di familiarizzare troppo con gli studenti. E quando un professore ordinario compariva nel cortile, io non mi precipitavo a prendergli la borsa». 
Nel 1963 esce la sua Storia linguistica dell’Italia unita, fondamentale non solo per i linguisti. D’altronde lei, per guadagnare, aveva lavorato con Bruno Zevi all’Istituto nazionale di urbanistica. E poi a Nord e Sud con Francesco Compagna.
«Che sentendomi parlare di linguistica a un convegno, sbottò: “Chillo è nu urbanista, ha da fa’ l’urbanista, no ‘sti cose”. In quel libro si raccontava un paese con il 14 per cento di analfabeti, che erano il 20 nelle regioni meridionali, il 30 in Calabria».
Da linguista teorico a linguista che si misura con i livelli di scolarità , con l’innalzamento diffuso dei saperi. Incrociando don Lorenzo Milani e il maestro Mario Lodi. Ma senza trascurare Saussure, di cui fornisce un’edizione fondata sui manoscritti, la prima che metta in circolo le riflessioni del linguista svizzero.
«In realtà  Saussure sottolineava che non tanto negli aspetti sistemici, ma solo in rapporto allo stato di una particolare massa parlante e in un certo tempo, si può capire come vive una lingua. Le sue riflessioni sono fondamentali per la Storia linguistica».
Siamo costretti a un vertiginoso salto in avanti. L’Italia si confronta ancora con l’analfabetismo? 
«Abbiamo compiuto passi giganteschi. Ma ora il problema è la dealfabetizzazione degli adulti. L’Istat dice che gli analfabeti sono l’1 per cento. Ma sono analfabeti che ammettono di esserlo. Gli studi di Vittoria Gallina documentano che solo un 20 per cento della popolazione adulta si orienta con sicurezza nel mondo d’oggi: sa leggere un giornale, le istruzioni di un farmaco, le comunicazioni della banca. Un altro studioso, Saverio Avveduto fa retrocedere all’analfabetismo il 30 per cento di adulti che ha solo i cinque anni di elementari».
Sono dati terribili. 
«La scuola fa quel che può. Ma il problema è quel che c’è fuori e dopo la scuola».
Lei ora presiede il premio Strega. Quale italiano viene fuori dai romanzi che concorrono?
«Buono. Fino a qualche tempo fa persisteva il gusto della parola esibita, colta, bizzarra. Ora molto meno. Quelli di oggi, in media, sono scrittori che sanno tenere bene la penna in mano».


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