Cronache di un fallimento costruito con metodo

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La riforma dell’università  voluta nel 1999 dagli allora ministri della ricerca e dell’istruzione Ortensio Zecchino e Luigi Berlinguer era sorretta dalla convinzione della necessità  di una radicale innovazione nella formazione superiore. L’obiettivo era la modernizzazione dei percorsi formativi per creare un circolo virtuoso tra Università  e mondo del lavoro. Accanto a questo c’era un cronico abbandono scolastico che gettava l’Italia in fondo alla classifica del numero di laureati in Europa. In fondo, l’Italia era stata una della maggiori sponsor del processo di Bologna, legittimato da una decisione dei vari leader europea a Lisbona di «traghettare» le società  industriali del vecchio continente a una non meglio definita «società  della conoscenza». A quasi tredici anni dalla sua approvazione, sono in molti che cercano di farne un bilancio. 
Dequalificata e arcaica
Recentemente è stata la Fondazione Giovanni Agnelli che lo ha fatto, mandando alle stampe I nuovi laureati. La riforma del 3+2 alla prova del mercato del lavoro (Laterza, pp. 117, euro 15). C’è da ricordare che la Fondazione Giovanni Agnelli aveva a suo tempo salutato positivamente la riforma Berlinguer-Zecchino. Ad anni di distanza, il giudizio sulla riforma non è cambiato. Negativo è invece il giudizio sulla sua attuazione. Lo stile è ovviamente cauto, al limite del soporifero, ma quello che è emerge è l’affresco di un fallimento. La Fondazione Agnelli analizza, facendo spesso leva sui dati di AlmaLaurea, su tutti gli aspetti della riforma. L’abbandono degli studi si è arrestato per alcuni anni, ma quando la politica di rigore – cioè tagli alla formazione scolastica e dunque anche di quella universitaria – ha cominciato a dominare l’agenda dei vari governi, c’è stato un incremento degli studenti che hanno abbandonato l’università . La cosiddetta laurea breve ha fatto sì aumentare il numero dei laureati, ma non ha certo garantito l’ingresso nel mercato del lavoro. La riorganizzazione dei corsi universitari è avvenuta, attraverso una loro moltiplicazione all’interno di una concorrenza tra università  per attrarre nuove immatricolazioni, che costituiscono, attraverso le tasse d’iscrizione, una entrata vista come compensazione per la riduzione dei fondi statali. E anche su questo la ricerca della Fondazione Agnelli è inclemente, quando sottolinea che le tasse universitarie sono cresciute mentre l’«offerta» era sempre meno di qualità . La cancellazione delle borse di studio, l’assenza di qualsiasi politica per gli studenti fuorisede costituiscono un refrain per molte pagine del volume. 
Nell’elenco di una applicazione fallimentare della riforma non potevano mancare la denuncia del nepotismo e dei concorsi «truccati» accanto al mancato ricambio dei docenti di prima e seconda fascia (gli associati e gli ordinari). Sottovalutato è invece la «fanteria leggera» dell’università , cioè i ricercatori precari. Ma questo non stupisce, visto che la Fondazione Agnelli ha spesso auspicato una deregolamentazione del mercato del lavoro universitario sorretto dai pilastri del merito. E tuttavia in questo volume una parte significativa è dedicata anche ai criteri di valutazione del lavoro di ricerca e docenza. Il quadro che ne esce è di una università  dove una soffocante logica autoreferenziale ha alimentato le resistenze del personale docente a qualsiasi forma di valutazione del proprio lavoro. 
Un futuro di precarietà 
L’analisi degli effetti della riforma del 3+2 assegna agli sbocchi lavorativi una parte rilevante del volume. E qui l’affresco è ancora più fosco. Da una parte l’università  non garantisce più la mobilità  sociale. Se gli anni Settanta sono stati il decennio dell’università  di massa, questo primo decennio del nuovo millennio vede sempre una università  di massa, dove però le aspettative di chi la frequenta sono ridotte al minimo. La laurea non è più sinonimo di un lavoro adeguato alla formazione universitaria. Chi esce dagli atenei quasi sempre svolgerà  un lavoro non corrispondente alla laurea; per i «fortunati», invece, c’è la prospettiva di lavori precari e pagati poco. E questo vale sia per le lauree umanistiche che per le lauree scientifiche. La Fondazione Agnelli spiega questa asimmetria tra formazione e mercato del lavoro con la mancata modernizzazione delle regole di ingresso nel mondo del lavoro. 
Il fallimento descritto in questo volume trova tuttavia una spiegazione non sempre convincente. Inutile sottolineare il consenso quando i ricercatori della Fondazione Agnelli denunciano la dismissione progressiva dello Stato nella formazione. Un paese che non investe nella formazione e nella ricerca è infatti un paese destinato al declino. Ma non è detto che una deriva aziendalistica nella gestione delle università  costituisca la soluzione ai problemi. In primo luogo, dopo tredici anni dalla ricerca, i privati si sono tenuti lontani dall’università . E non è detto che la logica meritocratica spesso evocata in queste pagine eviti quella biforcazione tra università  di serie A (gli atenei «eccellenti») e di serie B, che forniscono una formazione che ricorda più quella della scuola secondaria superiore che non quella propriamente universitaria che sta cancellando quel diritto alla studio, che pure è ricordato più volte come una conquista di civiltà , e definendo strategie di inclusione differenziata secondo le linee di classe e di censo. Che il governo dei «professori» non vuole certo bloccare, visto che ha più volte ribadito la sua volontà  di operare in continuità  con Maria Stella Gelmini, il ministro che ha lavorato con metodo per una ridimensionamento radicale dell’università .


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