DANTE, LEVI E I RAGAZZI DEL DUEMILA I NOSTRI SCRITTORI SONO EMIGRANTI

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Nelle ricostruzioni storico-letterarie dell’identità  nazionale italiana, in corso da alcuni decenni, ha assunto un ruolo sempre più determinante l’individuazione di quelli che potremmo definire i tratti genetici di tale specifica, peculiare formazione culturale. Per tratti genetici intendo quelle caratteristiche del nostro universo letterario, che, ben lungi dal proporsi come mere elucubrazioni intellettuali, affondano le loro radici nel modo d’essere italiano – o, più esattamente, nei modi d’essere italiano, spesso diversi, anzi diversissimi, anche in questo caso, dagli altri contesti nazionali europei, e persino tra loro.
Per esempio: lingua e dialetto; oppure chierici e laici (di dionisottiana memoria); oppure alto e basso, aristocratico e popolare; oppure cosmopolita e provinciale, comunale e universale (caso esemplare, ovviamente: Dante).
Per quanto mi riguarda (ma ovviamente di vie possono essercene state tante), una svolta illuminante fu rappresentata nel 1972 dalla comparsa del primo volume della einaudiana Storia d’Italia, intitolato I caratteri originali: rappresentava, ad opera dei curatori dell’opera, Ruggiero Romano e Corrado Vivanti, una robusta iniezione di cultura storico-antropologica francese (le Annales, ovviamente, ma anche molto Fernand Braudel) sul tronco ormai esangue dello storicismo italiano. Non a caso proprio in quel volume appariva per la prima volta il saggio (poi più volte, e anche recentemente, a sé ristampato) di Giulio Bollati su L’italiano, straordinario archetipo del tipo di ricerca innovativa, di cui qui stiamo parlando.
Qualche anno più tardi (1986) io stesso tentavo di trasferire in campo storico-letterario tali dinamiche di ricerca nel volume Le questioni, quinto della Letteratura italiana, anch’essa, com’è noto, Einaudi (ci sono tradizioni culturali che si formano all’interno delle case editrici invece che nelle aule universitarie: basta saperci fare). Come esempi di questa diversa attitudine alla ricerca (ma più significativa ancora sarebbe la citazione completa dell’indice) ricorderei di quel volume i saggi Città  e campagna di Michel Plaisance, Piazza, Corte, Salotto, Caffè di Alessandro Fontana e Jean-Louis Fournel, e I viaggi e le scoperte del molto compianto Giorgio Raimondo Cardona (il quale, per l’appunto, non era un letterato ma fondamentalmente un linguista-antropologo).
Nel mio saggio introduttivo al volume delle Questioni, intitolato La fondazione del laico, mi sforzavo di definire le condizioni per cui, fra XIII e XIV secolo, ad opera precipuamente dei tre grandi iniziatori, Alighieri, Petrarca e Boccaccio, una letteratura italiana moderna, – cioè, inevitabilmente e necessariamente laica, – si forma.
Osservavo a questo proposito, per quanto potesse apparire allora paradossale, che una di tali condizioni sarebbe stata rappresentata fin dall’inizio dall’esilio. Poiché tale condizione si è poi ripetuta infinite volte nel corso della nostra storia letteraria e culturale, non è azzardato considerarla, per l’appunto, uno di quei tratti genetici, per cui letteratura e cultura italiane si distinguono (e si definiscono) in maniera così peculiare rispetto a tutte le altre letterature e culture nazionali europee. Basta fare qualche nome per rendersene conto: Dante, Petrarca, Campanella, Bruno, Galilei, Foscolo, Mazzini, De Sanctis, Gobetti, Lussu, Silone, il confino di Pavese e Levi…
Sul tema dell’esilio hanno poi lavorato in molti, anche seguendo, com’è ovvio, strade diverse rispetto a questa da me descritta. In questi giorni esce un numero del Bollettino di Italianistica, rivista dell’Università  La Sapienza di Roma, di singolare peso anche dal punto di vista della foliazione, tutto dedicato a tale tema.
La materia, distribuita qui per fasi storiche (ma implicitamente anche tematiche), consente finalmente uno sguardo d’insieme su profondità  ed estensione di tale fenomeno (naturalmente, per completare il quadro bisognerà  lavorare ancora: ma le basi sono state poste). Ora quel che ne risulta è che l’esilio ha rappresentato fin quasi ai nostri giorni una modalità  dell’essere, o comunque una possibilità  sempre molto attendibile, della condizione letteraria e intellettuale italiana (accanto al carcere, s’intende, che richiederebbe un’altra serie): manifestatasi in molti modi e ruoli (per taluni, ad esempio, nella forma di un vero e proprio, volontario, “autoesilio”), ma con una costante comune. E cioè: l’esilio, come i saggi del Bollettino l’hanno descritto e investigato, non si presenta mai come una semplice specificazione biografica: diventa invece uno stato dell’anima, una sorta di presupposto (e condizionamento) psichico alle scelte delle diverse strade letterarie possibili. Così poste le cose, ne nasce un possibile nuovo taglio di lettura: di cui però solo la lettura dei saggi (appunto) contenuti nel numero può dar pieno conto.
Ma la storia non finisce qui. Siccome l’Italia è un paese davvero strano, dopo esser stato per secoli un gran fornitore di propri esuli al resto del mondo (destinati a continuare a scrivere altrove nella propria lingua ma anche, soprattutto dove e quando alla figura dell’esule è subentrata quella dell’emigrante, anche a scrivere in lingue altrui), più recentemente è divenuto un paese che ospita stranieri esuli da altri paesi del mondo, che qui scrivono però prevalentemente nella nostra lingua. Il fenomeno è oggetto nel Bollettino di un lungo saggio (C. Romeo). E, non a caso, il numero si chiude come di solito con una rubrica intitolata Il mestiere dello scrittore, alla quale, non avendo a disposizione sotto mano scrittori nostri esuli dei decenni o dei secoli scorsi, è stato chiamato a collaborare uno scrittore iraniano, Bijan Zarmandili, esule politico in Italia da molti anni, autore di alcuni notevoli romanzi della materia originaria, ma scritti ab origine in italiano.
Un cerchio forse si è chiuso? Chi lo sa. A giudicare dagli ammonimenti che piovono in questi giorni dall’alto sui nostri giovani, si direbbe che invece stia per riaprirsi (o si è già  riaperto?). Vuol dire che l’identità  nazionale italiana non si è ancora assestata, neanche dal punto di vista intellettuale e letterario. Figuriamoci dagli altri.


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