Una plurisecolare macchina industriale

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Pochi decenni fa evocare schiavitù, tratta o pirateria avrebbe voluto dire guardare indietro, secoli indietro. Fenomeni da conoscere sfogliando libri di storia. Oggi stanno nei titoli dei quotidiani e nei reportages televisivi. Sembravano fenomeni incompatibili con i nostri tempi, invece te li trovi sotto casa nella forma di nuovi schiavi o di persone trafficate. Al «Dramma della tratta degli esseri umani» è dedicato il penultimo numero di Concilium, rivista di teologia, non di politica internazionale o di sociologia. A riconoscere la modernità  dello schiavismo avevano una decina di anni fa cominciato a ragionare e a darne documentazione Romano Alquati, Pino Arlacchi e Kevin Bales. Che con nuova schiavitù non si sia di fronte ad una semplice metafora per impressionare i lettori lo si deduce dal fatto che basterebbe sostituirla con lavori forzati o asservimento e tutto ci tornerebbe più chiaro.
Il panorama mondiale dell’assoggettamento, del lavoro coatto, della privazione di diritti e di tutela, della mercificazione degli esseri umani, è sotto gli occhi di quasi tutti. E quasi tutti ne proviamo vergogna, che è già  una rivoluzione, suggeriva Marx, il quale, concentrandosi sull’Europa dei suoi tempi, dell’Inghilterra specialmente, ne deduceva forse una linearità  un po’ troppo nitida, prima lo schiavo poi il servo della gleba che diventa per forza salariato, una bestia ridotta ai più elementari bisogni della vita. Ad essere precisi, Marx parlava di schiavitù salariata, ma il resto della popolazione mondiale era ancora costituito da schiavi e schiave in senso proprio o da contadini asserviti. In senso proprio? A prima vista schiavo e schiavismo ci appaiono come nozioni lampanti, univoche e universali, smentite però dalle trasformazioni che hanno subito nel tempo e dagli adattamenti realizzati in contesti sociali e geografici molto diversi. I confini tra schiavitù e i molteplici profili dell’assoggettamento sono fluidi e anche ai nostri giorni si intersecano tra di loro, un presente strapieno di passato, dove la schiavitù usa e getta, Rosarno insegna, sembra farla da padrone, dove il traffico di esseri umani torna in auge come forma imperante di circolazione della manodopera, dove i servi da debito ammontano a milioni, dove donne e bambini stanno in prima fila come prelibati oggetti di asservimento. 
Autoassoluzioni dei carnefici
Lo storico Gabriele Turi nel suo bel lavoro, Schiavi in un mondo libero. Storia dell’emancipazione dall’età  moderna ad oggi (Laterza, pp. 388, euro 24) discute sì di definizioni e significati, ma soprattutto ci racconta di navi stracariche di beni mobili umani, di donne schiavizzate per produrre nuovi schiavi, di carovaniere con merce umana al seguito, di élites africane, asiatiche, europee interessate a far fruttare i corpi incatenati, del prolungarsi di questa forma mercantile nella nostra contemporaneità  e di come la mercanzia umana abbia resistito e contrastato la propria schiavizzazione. Il panorama è ben più ampio e approfondito di quanto il sottotitolo suggerisca. La stessa abolizione della schiavitù è ricostruita dando conto delle sue ambiguità , delle nuove cupidigie che la alimentano e dei colpi di spugna sul passato. «Siamo stati bravissimi: abbiamo abolito la schiavitù» si autosantificano ancora adesso nelle ricorrenze celebrative gli stati imperialisti che della tratta degli africani hanno fatto uno dei loro più redditizi investimenti. Torna qui dirompente il binomio ricerca storica-memoria collettiva che attraversa e in certi momenti dilania le nostre società . 
In Francia, dove è molto forte la tentazione di stabilire per legge le verità  storiche, l’uscita nel 2004 del libro di Olivier Pétré-Grenouilleau, La tratta degli schiavi. Saggio di storia globale (traduzione di Rinaldo Falcioni, Il Mulino, pp. 472, euro 14) avveniva in un momento di accesa discussione pubblica avviata dalla legge Taubira in cui si affermava il carattere di crimine contro l’umanità  della tratta dei neri e dello schiavismo. L’avrebbero ancora di più accesa alcune infelici dichiarazioni dell’autore. Purtroppo nell’edizione italiana questo contesto non è ricostruito e il titolo stesso da plurale che era, le tratte degli schiavi, è stato ridotto al singolare, la tratta. Per paura di sconcertare uno sprovveduto lettore italiano? Le tratte negriere sono state infatti più di una: quella atlantica verso le colonie europee delle Americhe, quella transahariana interafricana e quella orientale verso l’Asia, ciascuna con caratteristiche proprie e durate diverse. 
La politicizzazione di questo inequivocabile dato storico si trasforma spesso nella compilazione di graduatorie di iniquità  e di colpa da rinfacciarsi reciprocamente. La diretta e interessata partecipazione dei gruppi di potere africani alla schiavizzazione e alle tratte negriere non sminuisce di una virgola la macchina «industriale» messa in moto dalle élites europee e americane per procurarsi manodopera a bassissimo costo in favore dell’esordiente capitalismo. La quale manodopera schiavizzata ha saputo a Nord come a Sud delle Americhe ricrearsi un contesto nuovo, producendo una cultura afroamericana del tutto inedita, in qualche caso preminente, come nelle isole Caraibiche, in altri, Stati Uniti o Brasile, fortemente competitiva e critica verso quella bianca o creola. In contrasto con la nostra credenza a considerare gli schiavizzati come vittime passive e deculturate. È John Thornton in L’Africa e gli africani nella formazione del mondo atlantico. 1400-1800 (traduzione di Luca Cobbe, Il Mulino, Bologna, pp. 504, euro 38) a documentare questo processo innovativo. Il ruolo delle élites africane nella produzione di schiavi e nelle tratte tende ad oscurarsi nei battibecchi tra politica e memoria, come da tempo ribadisce lo storico senegalese Ibrahima Thioub, quasi che la complicità  dei sistemi locali di dominazione non possa essere nominata e gli africani non abbiano un proprio statuto storico e possano essere guardati solo come martiri inerti. 
Prede da registrare
Il discorso schiavistico non dà  scampo alle nostre disposizioni mentali. Non consente neutralità . Forse per questa ragione la vulgata che ci riguarda recita che, dopo quella del mondo antico, la schiavitù sia stata scacciata dall’Europa per merito del Cristianesimo, salvo poi precipitare alle soglie dell’età  moderna nella barbarie africana e trarne vantaggio. Questa favola accomodante non regge alla ricerca storica che riconosce nel commercio degli schiavi una costante dell’Europa medievale e moderna, ad ogni latitudine e con la benedizione dell’ideologia religiosa fautrice dell’idea che ci fossero popoli «selvaggi» destinati per natura alla schiavitù. È stato un traffico in bianco e nero: i mercanti veneziani e genovesi sono stati molto aggressivi nella compravendita di schiavi slavi e affini, per lo più donne destinate ad ogni tipo immaginabile di prestazione domestica.
Tra paesi islamici e cristianità  mediterranea è durata fino al Settecento la rincorsa a scambiarsi i ruoli di predoni e prede. In Sicilia come a Bologna esisteva l’istituto della Redenzione dei Cattivi per il riscatto dei cristiani catturati e il Registro delle prede, che non ha bisogno di spiegazioni. I lavori pionieristici e fondativi di Salvatore Bono hanno dato il via in Italia ad una scuola di studi che ha azzerato le pretese di estraneità  della penisola al traffico di bestiame umano. Quasi niente è però transitato nella coscienza collettiva.
Responsabilità  della scuola, della nostra generosa accondiscendenza verso noi stessi? Memoria congestionata? Conoscere meglio le passate pratiche di asservimento ci renderebbe meno autistici verso il variopinto paesaggio umano delle nostre città  e campagne. La tratta negriera prima di dirigersi verso le Americhe si è agevolmente mossa tra Spagna e Italia, manovrata da broker di alto livello come il fiorentino Bartolomeo Marchionni che da Lisbona dirigeva lo smercio dei corpi, soprattutto femminili. Anche gli scolari delle elementari si farebbero qualche domanda in più se qualcuno gli mettesse in video i gondolieri africani delle tele di Carpaccio.


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