Fino a che punto possiamo dirci «innocenti»?

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Che cosa fareste – si chiede e, in fondo, ci chiede Rastignac, che Balzac ci descrive come giovane e rampante lupo dai denti aguzzi – se vi proponessero di guadagnare in ricchezza, a patto di mandare a morte qualcuno dall’altro capo del mondo? Trovandosi per l’appunto la Cina all’altro capo del mondo, nessuno saprà  mai nulla del crimine e la ricchezza di cui, in seguito al delitto, verrete beneficiati sarà  forse attribuita a certe vostre abilità  commerciali o tutt’al più alla fortuna. Solo voi, dunque, suggerisce Rastignac, sarete a conoscenza del crimine ma a poco a poco, come di norma avviene, potreste pure scordarvene visto che nessuno ve ne chiederà  mai conto. 
Sia come sia e senza indulgere in moralismi di bassa lega, l’aneddoto sembra particolarmente adatto al tempo presente, dove la globalizzazione procede di pari passo con la scomparsa di ciò che le nostre culture e tradizioni hanno variamente definito come «il prossimo». In fondo, per uccidere il mandarino cinese non servono gesti eclatanti. Bastano quelli che ognuno di noi compie accendendo il quadrante di un’automobile, pigiando il tasto on sulla tastiera magica di un i-pad o di un qualsiasi marchingegno telefonico fabbricato – il tempo non è galantuomo, ammettiamolo, e gioca strani scherzi alla sorte – guarda caso in Cina. Forse ce ne dimentichiamo, ma ogni giorno e forse persino in tutti gli istanti del giorno noi godiamo del privilegio di vivere dalla parte giusta del corno del dilemma di cui Rastignac è malvagio, ma inconsapevole portatore.
Possiamo continuare a non mangiare carne, possiamo bandire del tutto l’allevamento bovino, suino, intensivo o meno che sia. Ma anche in tal caso – proprio ora, qui, mentre scriviamo o leggiamo – possiamo davvero crederci fuori dal gioco delle violenze che ci circondano e dichiararci sempre, in tutto e per tutto «innocenti»? Se ricorro allo stranoto apologo – e mi scuso per la banalità  del riferimento – è perché nelle pur articolate e puntigliose critiche che sono arrivate al mio ben più modesto articolo del 16 febbraio scorso, a dispetto dei distinguo e dei «ma, però, comunque, etc.» ho percepito qualcosa che – posso sbagliarmi, come spesso mi capita – definirei con una evidente forzatura un «retroterra gnostico». Come se il paradosso di Rastignac non ci riguardasse comunque, che si mangi o non si mangi carne. Possiamo davvero – anche non mangiando carne o vivendo secondo i dettami di Tom Cruise – crederci in tutto e per tutto innocenti? Non è che a forza di sceglierci «prossimi», «altri» e obiettivi talmente liofilizzati e green ci siamo dimenticati che, carne o non carne, nelle fabbriche, per le strade, nei barconi – e non solo nei pollai di Safran Foer – si muore? Abbiamo davvero tanto tempo e tanta energia per salvare il mondo da se stesso? Oppure si tratta solo e soltanto di salvare la propria buona coscienza, pigiando il bottone giusto, quello che, appunto, ci permette à  la Rastignac di essere in accordo con lo spirito dei tempi, credendo siano sempre gli altri a sbagliare, peccare, «ammazzare»? Ho sempre pensato, e continuo ostinatamente a pensarlo, che prima venga l’uomo. E se un granello di resistenza possiamo sperare di opporre ai rastignac divenuti nel frattempo legione, è solo e soltanto preservando quanto di umano persiste in un mondo sempre più disumano. Non sarà  che a forza di umanizzare l’animale si finirà  per rendere ancora più bestia l’uomo? È una domanda, non un’accusa, non abbiatene a male.
Ma mi sembrate così sicuri del fatto vostro che di certo saprete risolvere la questione. Purché non vi chiamiate fuori, perché nella rete di Rastignac ci siete anche voi. Carne o non carne. Ma soprattutto che vi piaccia o no.


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