I prezzi pagati dagli operai

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Dagli anni Novanta in Italia la produzione industriale è stagnante; la produttività  totale è negativa anche a causa di un terziario non competitivo, non solo nei settori tradizionali ma anche in quelli moderni (licenze, consulenze, informatica, finanza). Tutto questo sta alla base di una generale precarizzazione del lavoro, oltre che dell’aumento dei disoccupati di lunga durata e degli inattivi.
Del precariato si discute più dal punto di vista della condizione giovanile (eppure il 51% degli assunti a tempo determinato nel 2011 avevano più di trent’anni) e dell’impoverimento dei ceti medi delle professioni e dei servizi dove sono impiegati l’80% di diplomati e laureati (eppure i redditi da lavoro indipendente anche dopo il 2008 sono cresciuti di oltre il 3%). Chi ha pagato di più la crisi è stato il lavoro operaio, sia con la stragnazione salariale (che dura da vent’anni), sia con l’aumento dei licenziamenti, sia con la precarietà . Nella grande industria come nel terziario si assumono a tempo indeterminato solo funzionari, dirigenti e impiegati qualificati. Il nostro sistema produttivo offre posti di lavoro, oltre che precari, di qualifica bassa. Lo si vede dal livello di istruzione richiesto: serve la laurea nel 14,8% dei casi; il diploma nel 48,4%. Per il resto basta la qualifica professionale (17%), o addirittura (23,8%) non c’è bisogno di alcun titolo.
Questione di fondo (in un paese che ha un tasso di occupazione del 57%, inferiore di cinque punti alla media europea) è come creare lavoro, un lavoro «dignitoso», nel quale vengono rispettati i diritti, che produca un reddito adeguato e che abbia stabili protezioni sociali. Per questo serve una proposta radicale di riorganizzazione e cambiamento delle produzioni e dei prodotti sostenuto da un piano di investimenti pubblici centrato sull’innovazione. In Italia mancano i «capitali coraggiosi» per cui da noi si inventano il personal computer, l’algoritmo per navigare nel web, la tecnologia dei pannelli fotovoltaici, il giroscopio per l’I-Pad, ma è altrove che si trasforma tutto questo in prodotti e occupazione. Serve anche nell’immediato un piano del lavoro, come è quello proposto dalla Cgil, per prendersi cura delle persone e del territorio, facendo del terziario pubblico e privato un’occasione di crescita economica e di qualificazione del lavoro. Per finanziare questi piani basterebbe una tassa patrimoniale. Se la pagasse il 20% dei contribuenti più ricchi, come propone il presidente di Nomisma, pur escludendo le prime case, si potrebbero avere a disposizione quasi 200 miliardi. 
La foto di Vasto di Bersani, Vendola e Di Pietro su questo punto non deve essere sfocata, pena la crisi di tutti a cominciare dal Partito democratico. Solo un programma che rimetta al centro la valorizzazione del lavoro in tutti i suoi aspetti (come si avviano a fare i socialisti francesi e i socialdemocratici tedeschi) può invertire il processo che ha fatto allontanare operai e sinistra. La sua causa prima sta nella politica (anche quella dei ceti medi progressivi che sono larga parte dello staff dei partiti e degli eletti di sinistra) perché essa tiene separati i lavoratori dalla effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del paese. 
Ai lavoratori si vuole negare libertà  di organizzazione, pluralismo sindacale, diritto di sciopero, contrattazione autonoma e di valore generale. Si vuole stravolgere la legislazione di sostegno (a partire dallo Statuto dei lavoratori) nel suo contrario, come è l’art. 8 dell’ultimo decreto del governo Berlusconi e come sono le idee di manomissione dell’art. 18 del Governo Monti. I figli dei lavoratori non hanno di fatto più «diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi». Di questo si preoccupano le maestre del tempo pieno, non sempre i movimenti degli studenti.
Eppure, nonostante che la sinistra attuale sia assai più mediatica che sociale ed i «movimenti» nei loro programmi come nella loro efficacia siano discontinui, grazie alle lotte della Fiom al centro della scena è tornata non solo la questione dell’occupazione (senza lavoro non c’è vita, non c’è dignità ), ma della lotta operaia, del conflitto e della qualità  delle relazioni industriali come fondamento di libertà  e democrazia. Come non mai c’è bisogno di unità  tra quelli che, all’inizio del movimento socialista, si definivano lavoratori «del braccio» e della «mente».
Si capirà  di essere sulla strada buona quando al tema della gestione pubblica dei beni comuni si unirà  quello previsto dalla nostra Costituzione del «diritto dei lavoratori a collaborare, nei modi e nei limiti stabiliti dalle leggi, alla gestione delle aziende».


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