Il carcere nei campi di cotone

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“Benvenuti al 46esimo rodeo annuale della prigione di Angola, lo show più spettacolare del Sud”. Sono le 9 del mattino e sto attraversando i cancelli del penitenziario di stato della Louisiana, anche noto come Angola. Alla radio ascolto Kslp, 91.7 in fm. In questa zona, 91.7 è la frequenza dell’American Family Radio, una stazione cristiana e conservatrice. Ma appena entro nel distretto 70712 – la prigione ha un suo codice postale – diventa “la stazione della carcerazione”. Trasmette notizie con un sottofondo di musica allegra: “Lo sapevate che il penitenziario di stato della Louisiana è stato il primo degli Stati Uniti ad avere un programma universitario di quattro anni riconosciuto dal ministero?”.

Il direttore Burl Cain usa spesso l’aggettivo “unico” quando parla del suo carcere. Ed è difficile dargli torto. Sullo sfondo delle colline dove pascola il bestiame, Angola spicca nella sua singolare e disordinata bellezza. Non è tra i “punti di interesse” segnalati dal mio gps, che però rileva il View golf course, il primo campo da golf aperto al pubblico realizzato nell’area di un penitenziario. Nel museo di Angola, che Cain ha inaugurato nel 1998, sono esposti alcuni oggetti arrugginiti e una sedia elettrica fuori uso. Accanto c’è un negozio di articoli da regalo che vende tazze e borse per la spesa con la scritta: “Angola: una comunità  a numero chiuso”.

Angola è la più grande prigione di massima sicurezza del paese: occupa più di 7.200 ettari di terreno e ospita 5.200 detenuti. La Louisiana ha il tasso di detenuti adulti più alto degli Stati Uniti. A causa delle severe leggi dello stato, almeno il 90 per cento dei detenuti morirà  in carcere. Angola è l’espressione su larga scala di un fenomeno nazionale: i detenuti in età  avanzata sono la popolazione carceraria più in crescita negli Stati Uniti.

Ma Angola è anche famosa per aver rivoluzionato i princìpi della carcerazione. Un tempo era la prigione più violenta d’America. I detenuti prima di andare a dormire si legavano al petto vari strati di riviste per proteggersi dalle coltellate. La situazione ha cominciato a cambiare negli anni settanta, quando un giudice federale chiese una radicale riorganizzazione del penitenziario. Ma gran parte del merito è andata a Cain, che ha riportato l’ordine dietro le sbarre grazie a un nuovo modello di detenzione.

Cain ha continuato la tradizione dei lavori forzati dei suoi predecessori. La maggior parte dei detenuti lavora nei campi otto ore al giorno, cinque giorni alla settimana, su migliaia di ettari coltivati a soia, grano, granturco e cotone. Tutto viene raccolto a mano e venduto dalla Prison Enterprises, una società  del dipartimento delle carceri della Louisiana. Ma rispetto ai suoi predecessori, Cain, un cristiano evangelico, ha una missione speciale: portare Dio ad Angola. I sacerdoti del carcere annunciano ai nuovi arrivati che possono impegnarsi nella loro “riabilitazione morale” oppure rimanere dei “predatori”. “La scelta è vostra”, li avvertono. Intanto la radio trasmette musica gospel. Sulle pareti lungo il tragitto che porta alla stanza delle esecuzioni ci sono due murales: Elia che sale in paradiso e Daniele nella fossa dei leoni. Uno degli aneddoti preferiti di Cain è l’esecuzione di Antonio James, un cristiano rinato a cui ha tenuto la mano prima di dare il via libera all’esecuzione.

Mentre James era sulla barella in attesa dell’iniezione letale, Cain gli ha detto: “Antonio, la carrozza è arrivata. Tra poco vedrai Gesù”. Sono venuta ad Angola per vedere la più grande attrazione turistica della zona: l’ultimo rodeo di una prigione ancora attivo negli Stati Uniti. Per cinque domeniche all’anno, migliaia di visitatori prendono questa strada per arrivare a un’arena da diecimila posti costruita dai detenuti e vedere i criminali più temuti della Louisiana battersi in gare atroci. Nel convict poker (poker del carcerato), un toro viene lanciato all’attacco conto quattro detenuti che siedono intorno a un tavolo da gioco: vince chi rimane seduto più a lungo. Nel guts and glory (coraggio e gloria) i detenuti devono cercare di afferrare una fiche da gioco legata alla testa del toro. Ma la gara più amata dal pubblico è il bull riding, la doma del toro. I detenuti possono vincere premi in denaro, ma non hanno la possibilità  di allenarsi prima di entrare nell’arena. Sono come i gladiatori dell’antica Roma.

Il rodeo è una tradizione che risale a molto prima dell’arrivo di Cain, ma oggi è diventata un’estensione del suo metodo di sottomissione dei detenuti attraverso Experiencing God, il corso introduttivo alle dottrine della convenzione battista del sud. I proventi della manifestazione servono a pagare i funerali dei detenuti, la manutenzione delle cappelle del carcere (costruite dai detenuti) e i programmi per la “riabilitazione morale”. Una volta Cain ha detto alla rivista Christianity Today che il programma aiuta i prigionieri ad “accettare il fatto che sono e resteranno in prigione per volontà  di Dio, quindi dovranno fare il massimo per lui”. Il rodeo può far male al corpo, ma Cain pensa a salvare le anime.

Come un campus
L’atmosfera del rodeo è festosa. C’è una gigantesca fiera dell’artigianato con musica dal vivo, dove si possono comprare oggetti realizzati dai detenuti e spuntini di ogni genere, tra cui la Coca-Cola fritta, tributo a uno dei principali sponsor del rodeo. Un cartellone dice: “Scatta qui le tue foto alla prigione”. Sembrerebbe una fiera come tante, se non ci fossero ovunque i detenuti in pantaloni scuri e maglietta bianca. Vendono oggetti d’arte e articoli in pelle e offrono prezzi scontati a favore di una gamma molto variegata di associazioni: si va dai panini del club di orticoltura alle ciambelle fritte del club dei veterani in carcere.

“In fondo questo posto non è tanto diverso da un campus universitario”, dice la vicedirettrice del carcere Cathy Fontenot, responsabile della comunicazione di Angola. Cain ha investito molto nella macchina delle pubbliche relazioni. Non tollera gli articoli che parlano male di Angola. James Ridgeway, un giornalista di Mother Jones, è stato bandito dal carcere dopo aver pubblicato un articolo che criticava i metodi di Cain. Solo con l’aiuto dell’American civil liberties union (Aclu), un’organizzazione non profit per la difesa dei diritti civili, ­Ridgeway ha potuto nuovamente entrare ad Angola. Già  negli anni settanta aveva raccontato le misere condizioni in cui vivevano gli Angola three, tre attivisti delle Black Panther condannati all’isolamento in seguito all’uccisione di un secondino nel 1972. Due di loro, Albert Woodfox ed Herman Wallace, sono rimasti in isolamento per quasi quarant’anni. Fontenot s’irrigidisce quando sente parlare degli Angola three. “Qui non abbiamo celle di isolamento”, dice seccamente. Sono state sostituite dal “confinamento prolungato”: i detenuti sono confinati 23 ore al giorno in una stanza di due metri quadrati.

Lane Nelson è un detenuto modello che vende abbonamenti a The Angolite, la rivista dei carcerati di Angola. Condannato a morte per un omicidio commesso nel 1981, a pochi giorni dall’esecuzione la sua pena è stata commutata in ergastolo. Dopo aver lasciato il braccio della morte è stato mandato a raccogliere il cotone. “È un lavoro duro”, racconta. “Devi raggiungere una certa quota di raccolto ogni giorno e non puoi perdere tempo”. Come la maggior parte dei detenuti, Nelson non aveva mai lavorato nei campi. Qui ad Angola appartiene a una minoranza: quella dei bianchi. Nelson è anche un raro esempio di condannato che non ha finito la sua vita dietro le sbarre. Nel gennaio del 2011 è stato liberato.

Un tempo Angola era una piantagione dove gli schiavi tagliavano le canne da zucchero. Alla fine dell’ottocento diventò un luogo di detenzione, con i condannati che lavoravano per le aziende locali. Nel 1901 fu trasformata in una prigione di stato. Ma in realtà  rimase una piantagione, con i prigionieri ammassati in grandi capannoni di legno che lavoravano nelle piantagioni di canna da zucchero e di cotone per 12-14 ore al giorno, sette giorni su sette, con la pioggia o con il sole.

Oltre alle percosse, il modo più efficace per mettere in riga i detenuti era quello di trasferirli “in isolamento temporaneo”. Prima “in bare di ferro sotto terra”, poi nei pisser: una serie di celle senza finestre “né letto, né bagno, né ventilazione”. Oggi i visitatori del museo di Angola possono leggere parte di questa storia in un libretto intitolato The Angola story, che illustra i cambiamenti avvenuti negli anni.

Anche le condanne sono cambiate. Un tempo gli ergastolani in Louisiana avevano diritto di chiedere la libertà  condizionale cinque anni dopo la condanna. Nel 1926 i tempi di attesa raddoppiarono. Negli anni settanta la situazione è precipitata: al crollo delle richieste di libertà  condizionale si è aggiunto l’inasprimento delle leggi contro il crimine. Da allora la linea della “tolleranza zero” ha prevalso in tutti gli Stati Uniti.

Nel 1972, dopo la sentenza della corte suprema sul caso “Furman contro lo stato della Georgia” che sospese temporaneamente la pena di morte, la Louisiana ha abolito la possibilità  di chiedere la libertà  condizionale per una serie di crimini violenti. “In meno di un decennio, siamo passati da un’epoca in cui gli ergastolani ottenevano la libertà  condizionale dopo dieci anni a una in cui in teoria tutti dovrebbero morire in prigione”, scrive Burk Foster, autore del saggio Criminal justice in Louisiana. Come disse C.Paul Phelps, che all’epoca dirigeva il dipartimento delle carceri dello stato, “la Louisiana sta gettando le basi per creare la più grande casa di riposo maschile degli Stati Uniti”.

Anthony Diggs lavora come volontario nella casa di cura di Angola, dove i malati terminali trascorrono i loro ultimi giorni. Anche se in teoria la legge della Louisiana permette ad alcuni detenuti di chiedere la scarcerazione per ragioni di salute, pochi hanno davvero questo privilegio. La maggior parte dei detenuti che Diggs assiste “non può fare nulla”. “Sono molto anziani, relegati sulle sedie a rotelle. Non fanno male a nessuno”. Diggs è un afroamericano robusto con un forte accento di New Or­leans. Vende cinture di alligatore vicino a un pannello che espone le foto della “preghiera di chi assiste i malati”.

Diggs cura anche la manutenzione di uno dei cimiteri di Angola, il Point lookout.Da quando Cain è il direttore, ad Angola i funerali sono diventati dei rituali solenni: la bare, costruite dai detenuti, sono trasportate verso il cimitero su una carrozza tirata da cavalli. Come la casa di cura per malati terminali, questo protocollo è pensato per dare dignità  nella morte. Ma per Diggs, è una magra consolazione: “Sono arrivato ad Angola quando ero un ragazzo, c’erano tanti detenuti giovani che correvano con me sui campi da football. Oggi hanno sessant’anni e continuano a correre”, dice Diggs. “Ma ho paura. Non voglio ritrovarmi come loro, in un letto, assistito da un infermiere”.

Non lontano dalla casa di cura c’è un padiglione coperto circondato da una rete di metallo. Da una parte della recinzione ci sono i detenuti in fila, dall’altra sono esposti i loro manufatti. “Sono i prigionieri di cui ancora non ci si può fidare”, mi spiega Fontenot mentre passiamo rapidamente davanti al padiglione.

Ottenere la fiducia significa ottenere più privilegi, compreso il diritto di guadagnare 20 centesimi all’ora invece del salario base di due centesimi. Come il “confinamento prolungato”, questo sistema fu inventato in un’epoca meno conciliante alla Parchman farm, la famosa prigione-piantagione del Mississippi, dove i trusty, i detenuti fidati, erano scelti per controllare gli altri. Il ruolo più prestigioso era quello dei trusty shooter, che controllavano il lavoro nei campi armati di fucile.

Tutto esaurito
I detenuti che partecipano al rodeo non devono aver subìto sanzioni disciplinari. Solo una minoranza entra nell’arena. “Sono per lo più i giovani”, mi dice da dietro la recinzione Lamont Mathews, un prigioniero di colore, anziano, con gli occhiali molto spessi. “Perché guariscono più facilmente”, aggiunge.

Nell’arena, accanto a un gruppo di soccorritori, c’è Aldric Lathen, un giovane nero con gli occhi castano chiaro e l’aria sveglia. La sua famiglia arriverà  la prossima settimana. In un rodeo di qualche anno fa Lathen si è rotto due costole: “Sono finito schiacciato tra due cavalli”. E una volta ha visto un toro aprire il volto di un uomo. “Ogni volta mia nonna prova a convincermi a non partecipare al rodeo”, racconta. Quando lo incontro più tardi, mi annuncia con un ghigno: “Ho scoperto quale sarà  la mia gara: domare il toro”.

Manca ancora molto a mezzogiorno, ma Fontenot mi informa che è l’ora del pranzo. “È triste pensare che debba esistere un posto del genere”, mi dice mentre addento con uno stecchino un gamberetto molto fritto. Allo stesso tempo, “per questi uomini è la loro comunità . Qui sono qualcuno”. Le chiedo se c’è qualche leggenda su Angola che vuole sfatare. Risponde in fretta, sospirando: “Quella che siamo una piantagione di schiavi nel sud degli Stati Uniti. La gente ama questa mistica”.

La strada che porta ad Angola è la Highway 66, che si snoda per circa trenta chilometri dalla città  di St. Francisville. All’uscita per la 66, di fronte a un posto di ristoro che pubblicizza piatti caldi, un cartello annuncia: “Rodeo tutto esaurito”.

Il locale si chiama “Specialità  della piantagione”. Wanda Callender, la proprietaria, è cresciuta dentro i confini di Angola, dove suo padre lavorava come vigilante. “È un posto meraviglioso per una bambina”, mi dice. “Potevo andare sullo skate, giocare a pallacanestro e andare a ballare il venerdì e sabato sera”. I detenuti “spesso venivano da noi”, ricorda, e gli offrivamo delle bibite fresche.

Tre figli di Callender lavorano ad Angola. Cody, che fa l’infermiere, concorda con la madre sul fatto che Angola è un buon posto per i detenuti. Molti diventano addirittura “brave persone”, dice. “Ma quando uno commette un crimine deve andare in carcere”, ribadisce Callender. Secondo lei, anche se i prigionieri di Angola potessero ottenere la libertà  condizionale, “non se ne andrebbero”. Quelli che lavoravano per suo padre finivano per tornare ad Angola anche dopo esser stati rilasciati, spiega Callender: “Era un padre anche per loro”. Cody non è d’accordo: “Se potessero, credo che proverebbero a tornare nel mondo là  fuori”.

Indietro nel tempo
A tre chilometri dal locale di Callender c’è la piantagione di Butler Greenwood. Le sue querce grondanti di muschio spagnolo formano una calotta naturale su un edificio in stile vittoriano ben preservato. La proprietaria, la scrittrice Anne Butler, l’ha trasformato in un bed & breakfast. Nel 1997 ha rischiato di morire tra queste mura, uccisa dai colpi sparati da Murray Henderson, l’ex direttore del carcere di Angola che all’epoca era suo marito.

Eppure Butler è contraria all’ergastolo. “Perché un detenuto anziano dovrebbe rimanere in carcere?”, dice. “Così si va oltre la giusta punizione”. Butler ha fatto molte ricerche su Angola. Mi spiega che i vecchi libri sulla storia del penitenziario trasudano umanità  anche quando parlano dei personaggi meno compassionevoli. Uno di questi libri racconta la storia di un detenuto che nel 1948 uccise la sua padrona, Rubye Spill­man, e dopo essersi camuffato con i suoi vestiti annegò nel Mississippi mentre cercava di fuggire. Era un’epoca brutale, ma i residenti liberi di Angola ne parlavano con amore. “Io ero la principessa, i miei genitori erano il re e la regina, e poi avevamo la servitù. Non ci mancava nulla”, raccontava la figlia di Rubye Spillman.

Butler ha scritto un ritratto dell’uomo che ha lanciato il rodeo di Angola, il cowboy texano Jack Favor. Condannato per omicidio, ad Angola è diventato un detenuto modello. È sua l’idea di rendere il rodeo un’attività  redditizia. Qualche anno fa il penitenziario è stato accusato di corruzione proprio per questa attività . Nel 2004 un finanziatore del rodeo ha detto all’Fbi che Cain l’aveva costretto a donare soldi alla cappella di Angola in cambio del rinnovo del suo contratto. Nel 2009 un addestratore di cavalli in pensione ha ammesso di aver organizzato una truffa legata al racket dei cavalli di Angola. Quell’anno, i ricavi del rodeo hanno superato i 2,4 milioni di dollari. “C’è sempre stato qualcosa di sospetto”, dice Butler.

Cain è stato spesso accusato di comportamenti scorretti. Nel 1998 il giornalista Daniel Bergner ha raccontato le condizioni di vita dei detenuti di Angola nel libro God of the rodeo. Negli anni novanta era raro che un giornalista ottenesse il permesso di visitare il carcere, e in seguito Cain si è pentito di averglielo concesso. Quando Bergner si è rifiutato di smentire i suoi articoli, Cain gli ha vietato l’ingresso nel carcere. Le autorità  statali hanno aperto un’inchiesta sulla base dei fatti raccontati da Bergner. “Il diavolo non gli lascerà  scampo”, ha detto Cain davanti alla commissione di giustizia del senato della Louisiana. Bergner ha raccolto i pareri di alcuni prigionieri sulla decisione di Cain di far tornare Angola indietro nel tempo, sostituendo i trattori e i camioncini con le carrozze trainate da muli e cavalli. “Gli piace perché gli ricorda l’epoca degli schiavi”, dicono i detenuti.

Cain si avvicina tranquillamente ai giornalisti che aspettano fuori dell’arena, con i suoi modi affabili e i capelli di un bianco splendente. “Un mago della parola”, l’ha definito un ex detenuto. “Oggi ci sarà  un grande spettacolo”, dice. “Ci state aiutando a promuovere la manifestazione e le vendite, quindi vi ringrazio molto”. Cain descrive il rodeo come una “fonte di moralità ” per i detenuti e un “deterrente” per i loro figli. Secondo lui il vero obiettivo dell’evento è la pubblica sicurezza. “Il rodeo riduce il numero di vittime della criminalità ”, afferma. Gli chiedo di spiegarmi la filosofia della “riabilitazione morale”: la redenzione ad Angola è possibile solo attraverso Gesù? “Queste cose non c’interessano”, risponde facendo spallucce. “Noi cerchiamo la morale che troviamo nella religione”.

All’ingresso dell’arena c’è una grande scritta: “Il rodeo del carcere di Angola aiuta a mandare missionari a diffondere la parola di Dio nelle prigioni di tutta la Louisiana. Lo sapevate?”. La folla sta ancora prendendo posto sugli spalti, quando risuona una tromba. Tre cavalli bianchi avanzano al galoppo nell’arena, portando cavalieri vestiti da angeli con abiti ampi, cinture d’oro e ali di piume. Mentre crescono gli applausi dagli spalti, irrompe un quarto cavaliere portando una bandiera che annuncia: “Gesù sta arrivando”.

“Ascoltate: io verrò presto”, tuona una voce, mentre un quinto cavaliere attraversa a tutta velocità  l’arena con i vestiti che sventolano dietro di lui in maniera spettacolare. “Io sono l’Alfa e l’Omega, il primo e l’ultimo, il principio e la fine”. I versi sono tratti dall’Apocalisse di Giovanni, è la battaglia finale tra il bene e il male. Parte una musica trionfale mentre i sei cavalli escono di scena. Sono adornati di croci dalla testa agli zoccoli, con una scritta sul dorso: “Esercito del Signore”. La folla impazzisce. Il rodeo è ufficialmente cominciato.

Arrivano gli Angola rough riders. Tutti vestiti a righe, portano una serie di bandiere. Un anziano detenuto di colore ha la bandiera degli stati confederati d’America. Un altro quella dell’armata dell’Oltre Mississippi, l’esercito confederato degli stati di Texas, Arkansas, Missouri e Louisiana nella guerra civile. “Sono bandiere che hanno sventolato sulla Louisiana”, mi spiega un addetto stampa quando gli chiedo se questo simbolismo non è un po’ pericoloso. “No, è storia”.

Il primo evento, bust out (evasione), finisce prima di cominciare. Otto sportelli si aprono simultaneamente facendo uscire otto tori scalpitanti con alcuni detenuti in groppa. Pochi secondi e sono tutti a terra: devono cercarsi subito un riparo sicuro. La sfida successiva, cavalcare senza sella, ha lo stesso epilogo. L’evento chiamato pinball (flipper) è più movimentato: si apre uno sportello e un toro gigantesco scaraventa le sue corna contro un detenuto tracagnotto che viene lanciato in aria a qualche metro d’altezza, mentre il suo cappellino da baseball vola via. Le urla della folla sono un misto di orrore ed eccitazione. Il detenuto rimane immobile a terra fino a che due soccorritori lo prendono per le braccia e lo portano via in tutta fretta.

È uno spettacolo violento, anche se coinvolgente. I vincitori delle gare mostrano i pugni al cielo trionfanti. Forse per loro è il momento migliore dell’anno. Anche dopo tanti brividi, però, la parte più inquietante resta la cerimonia di apertura. Far sventolare una bandiera degli Stati confederati a un nero su un’ex piantagione di schiavi sembra un gesto a dir poco stonato per un’istituzione che dice di aver chiuso con il suo fosco passato.

Servi del Signore
“Lo dico sempre: se ci fosse ancora la schiavitù, Angola sarebbe una piantagione di schiavi ben gestita”. Wilbert Rideau mi parla nel suo salotto a Baton Rouge, la capitale della Louisiana, davanti a sua moglie Linda. Rideau, che è stato definito “il detenuto meglio riabilitato nel mondo”, ha trascorso 44 anni in carcere per aver commesso un omicidio durante una rapina quando aveva 19 anni. Ad Angola era diventato il direttore della rivista del carcere The Angolite, vincendo anche un premio di giornalismo. Ha codiretto il documentario The farm, che nel 1998 aveva ricevuto una nomination agli Oscar. Con l’aiuto di Linda, nel 2005 ha lasciato finalmente Angola.

In passato Rideau è stato molto critico nei confronti del rodeo. “Sfrutta i detenuti per far divertire gli altri”, ha scritto nella sua autobiografia In the place of justice. “Poi però ne ho capito la ragione”, dice. “Il ricavato del rodeo veniva speso per le necessità  dei detenuti, dagli occhiali alle dentiere”. Oggi, tuttavia, Rideau teme che quei soldi finiscano nelle casse di programmi a sfondo religioso. “Parlano di costruire cappelle. Noi non avremmo mai fatto una cosa del genere”.

Chiedo a Rideau dell’“esercito del Signore” di Cain e lui inarca le sopracciglia. “Sa, tutti diventano religiosi appena le porte della cella si chiudono dietro di loro”, dice. “Un tempo la chiamavano fregatura. Oggi lo chiamano utile programma di riabilitazione!”. Henry Blackaby, l’autore del corso Vivere Dio di Angola, è più preciso. “I servi del Signore fanno quello che Lui gli ordina”, scrive. “Obbediscono. Il servo non può decidere se obbedire o meno. Non rispettare gli ordini di Dio significa ribellarsi, e la disobbedienza ha le sue conseguenze”.

*Traduzione di Antonello Guerrera.


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