Il Principe rosso alla conquista dell’America Barack accoglie Xi Jinping alla Casa Bianca

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NEW york – Peccato che non si sia portato dietro la moglie, la seducente cantante folk Peng Liyuan: gli americani avrebbero scoperto una First Lady altrettanto visibile di Michelle Obama o Carla Bruni. Il vicepresidente Xi Jinping ha preferito venire da solo perché la sua visita è già  sovraccarica di aspettative, senza aggiungerci una consorte che per le liturgie politiche cinesi risulta ingombrante. Oggi Barack Obama “scopre” il leader che guiderà  la Repubblica Popolare per i prossimi cinque anni. Il presidente americano deve prendere in fretta le misure di questo interlocutore, il più importante partner-rivale per chi governa l’America. È un viaggio delicato per tutti e due: Obama incontra per la prima volta colui che assumerà  le massime cariche a Pechino subentrando a Hu Jintao, in una fase gravida di tensioni tra le due superpotenze e in piena campagna elettorale americana. Xi, pur essendo un membro più che esperto della nomenclatura comunista, fa una sorta di battesimo internazionale seguito con attenzione dai cinesi: questo è il suo primo viaggio all’estero da quando è il presidente in pectore. Né Obama né Xi hanno diritto allo sbaglio. 
Del nuovo leader cinese la prima cosa che gli americani vogliono scoprire è lo stile. Molto diverso da Hu Jintao: se l’attuale presidente sembra una statua di cera del museo Tussaud, il suo vice è più rilassato, parla a braccio, improvvisa, ha senso dell’humour. Un’arma a doppio taglio, però, perché Xi è capace di battute fulminanti come quella che fece nel 2009 in Messico per rispondere alle critiche americane: «Primo, la Cina non esporta più rivoluzioni. Secondo, non esporta carestia né miseria. Terzo, non esporta guerre. Si può sapere cosa volete di più?». La sicurezza gli viene dalle origini “aristocratiche”, nel senso che Xi è un rampollo della nomenclatura maoista, abituato a frequentare i palazzi del potere dall’infanzia. Perciò la Casa Bianca non si fa illusioni. È improbabile, se non impossibile, che questa visita di Xi sia l’occasione per qualche disgelo sui dossier bilaterali più scottanti: la sottovalutazione dello yuan, il nucleare iraniano, i massacri di Assad in Siria, le proteste dei tibetani contro l’oppressione cinese. Sui diritti umani la delegazione cinese è talmente suscettibile, che ha negoziato in anticipo con la Casa Bianca perfino l’itinerario dei percorsi che Xi farà  in automobile dagli aeroporti alle sedi degli incontri ufficiali: meglio evitare i tragitti troppo lunghi che offrono più opportunità  a chi vuole organizzare manifestazione di protesta. Da Pechino hanno fatto sapere del resto che non staranno sulla difensiva: questa visita ha per obiettivo di appianare un “deficit di fiducia”, creato secondo i cinesi dalle ultime decisioni di Obama che rafforzano il dispositivo militare Usa nel Pacifico. In primo piano però restano le questioni economiche, che oggi il vicepresidente cinese affronterà  sia nell’incontro con Obama, sia con i leader del Congresso. In campagna elettorale, democratici e repubblicani non sono inclini alle gentilezze, ciascuno deve dimostrare ai propri elettori di essere grintoso nella difesa degli interessi nazionali. 
La Casa Bianca come sempre è il luogo dove si concentra il maggiore realismo: Obama e il suo segretario al Tesoro Tim Geithner sanno quanto siano preziosi i capitali della banca centrale cinese per assorbire le emissioni di Treasury Bond. Del resto gli investimenti cinesi non si limitano più soltanto a finanziare il debito pubblico dello Zio Sam. Sempre di più, le multinazionali venute da Pechino Shanghai e Shenzhen fanno investimenti industriali, aprono fabbriche, assumono operai americani: per esempio nel Michigan dove hanno contribuito anche loro alla rinascita dell’industria dell’auto. Deputati e senatori saranno i più ostili nei loro scambi con Xi, rinfacciandogli più aspramente di Obama una politica del cambio che è considerata sleale. La questione della svalutazione competitiva però non si pone in termini così acuti come qualche anno fa. Dal 2005 lo yuan si è rivalutato del 31% sul dollaro, e il suo apprezzamento è ancora superiore se si tiene conto dell’inflazione salariale in atto in Cina. 
Xi ha avuto l’abilità  di pianificare un itinerario tanto lungo quanto diversificato. Dopo due giorni a Washington andrà  nell’Iowa, per concludere il suo lungo viaggio il 17 in California. La dislocazione geografica è importante. Nell’Iowa farà  un tuffo nel passato. Ci andò quasi 30 anni fa, da giovane dirigente, fu ospite di una famiglia di agricoltori e dormì nella stanza del figlio teenager. «Era piena di manifesti di Star Trek», ricorda Xi. Ma l’Iowa è anche il centro della lobby agricola che venera la Cina: il principale mercato per soya e granturco americano. In California troverà  quelle multinazionali hi-tech che denunciano contraffazione e pirateria, ma che grazie alle delocalizzazioni in Asia hanno mantenuto margini di profitto eccezionali. Un percorso ideale per ricordare agli americani quanto i rapporti tra i due giganti siano complicati e interdipendenti.


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