Il Ritorno del Panteismo

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Rifiutando sia il teismo sia il nichilismo, in questo libro Parazzoli abbraccia il panteismo, nel senso che il suo Dio (il principio primo, il fondamento) diviene qui il mondo stesso, rappresentazione dietro la quale non c’è nulla e nessuno (negazione del teismo), senza però che il suo senso sia il nulla e vi sia l’impossibilità  di stabilire una gerarchia di valori (negazione del nichilismo). Anche se privo della sua serenità , Parazzoli ripercorre il sentiero di Spinoza. Anche se privo della sua gioia dionisiaca, Parazzoli ripercorre il sentiero di Nietzsche. Senza serenità  e senza gioia, il percorso di Parazzoli verso il panteismo è piuttosto simile al grido di Munch, e talora in alcune espressioni a una sorta di ghigno metafisico alla Hieronymus Bosch. Comunque sia, a prescindere dal percorso personale, questo libro è il documento di un nuovo credo, il credo di un uomo che passa dal Deus cristiano al Deum pagano, perché è esattamente questa impersonalità  neutra della Divina Energia ciò che Parazzoli chiama Rappresentazione (o anche Natura e Mondo) e che per lui è tutto. La frase centrale di questo strano saggio filosofico-teologico è infatti, a mio avviso, quella che riporta i pensieri del «brutto granchio grigio» che, nascosto dietro una scopa, sta per morire: «Capì» (il soggetto è appunto il brutto granchio grigio) «che anche quel suo starsene a morire dietro una scopa faceva parte di qualcosa che avviene, e che quel qualcosa è la vita stessa di dio… il mondo altro non è se non la vita di dio. Dio non è mai scomparso, la sua assenza è soltanto un abbaglio. Al contrario, dio è in continua, totale, dinamica apparizione, è tutto ciò che appare e che qualunque granchio può vedere, eternamente presente, senza passato né futuro. Dio è soltanto il presente, tutto il mondo è soltanto il presente, è la rappresentazione di ciò che avviene. Non c’è altro al di fuori di dio, nulla avviene al di fuori di dio. Dio è inevitabile». Ecco una delle più chiare e luminose confessioni di fede panteista. Non c’è alcuna eclisse o tramonto di Dio, ciò che muore è solo Deus per lasciare di nuovo il posto a Deum.
Questo libro è il corrispettivo cristiano del testo con il quale il pagano Plutarco, ormai quasi venti secoli fa, aveva intuito la fine ormai prossima del paganesimo, testimoniandola nella celebre pagina del De defectu oraculorum (Il tramonto degli oracoli): «Appena si giunse presso Palode regnò una gran pace e di venti e di flutti; Tamo, da poppa, con lo sguardo volto alla riva esclamò, come aveva udito: “Pan, il grande, è morto!”». L’antico testo prosegue annotando che «egli non aveva neppure chiuso bocca, che un immenso gemito, non di uno ma di molti, s’innalzò, misto a grida di stupore».
Nel IV secolo, quando la vittoria del cristianesimo monoteista sul politeismo pagano era ormai conclamata, Eusebio di Cesarea interpretava questo brano di Plutarco come simbolo della fine del paganesimo, sconfitto con tutti i suoi Dei dall’avvento di Cristo (Preparatio evangelica, v, 17). Plutarco, che fu sacerdote del tempio di Apollo a Delfi, annunciò la morte di Pan e con ciò del paganesimo politeista; Parazzoli, che non è un sacerdote ma spesso in queste pagine paragona lo scrittore al sacerdos e la scrittura all’opera liturgica scrivendola al maiuscolo, Opera, annuncia la morte del Dio unico e con ciò del cristianesimo monoteista. Si può quindi trattare di una risurrezione di Pan? Questo libro è forse un segnale dell’incipiente rivincita del paganesimo panteista? Si tratta di una domanda a cui solo il tempo darà  una risposta.
Quello che è certo è che quanto aveva portato Plutarco ad annunciare la morte di Pan, cioè il venir meno degli oracoli e della voce degli Dei, è il medesimo elemento che oggi porta Parazzoli ad annunciare il venir meno del Dio della tradizione cristiana. Il defectus odierno concerne la mancanza di una qualunque voce divina che risponda oggi alle esigenze di verità  e di giustizia che sorgono nel cuore dell’uomo, nel senso che il Dio unico (personale, onnipotente, provvidente, giudice, creatore e signore, senza il cui volere diretto o indiretto non si muove foglia, che vedendo il male lo può impedire ma lo permette per un bene maggiore), quel Dio lì, non sa più onorare con il suo silenzio la richiesta di verità  e di giustizia dell’anima umana.
Il paganesimo panteista di Parazzoli ha i suoi consigli esistenziali e spirituali da proporre. Per esempio come quando si avvicina all’epicureismo rifacendosi a Orazio: «Ho vissuto, dice Orazio, ed è semplicemente questo a rendere felici, ma per dire “ho vissuto” occorre avere la piena coscienza del vivere, una felicità  sommessa ma costante, simile a se stessa come il respiro e, come il respiro, pronta a interrompersi. Un saluto, e via». Oppure come quando si avvicina allo stoicismo, con parole da cui emerge la medesima nobile filosofia di vita di Seneca, Epitteto, Marco Aurelio e, ai nostri giorni, di Pierre Hadot: «Se la vita ha un senso e la felicità  sta nella coscienza di vivere, occorre una meta verso cui navigare, riconoscenti nella fortuna, fermi nelle avversità . Allora, l’imbarazzante e talvolta frivola “felicità ” si muterà  nella più umana e solida “fortezza”, stato di vita sottratto al capriccio del destino e affidato all’esercizio della volontà ». Oppure come quando ripresenta la spiritualità  del naufragio che è stata la proposta spirituale del grande Karl Jaspers: «Il vero navigante sa che puntando alle certezze di cui fu nutrito, si infrangerà  miseramente. Per cui, abbandonandole, metterà  la prua al largo cercando la salvezza proprio nella tempesta, rifuggendo le finte certezze offerte dalla terra, affrontando il rischio del mare aperto». Oppure come quando raggiunge la quiete del Buddha con parole peraltro attribuite a Gesù: «Fate silenzio una buona volta e ascoltate la pace. Tiratela fuori, l’avete nascosta dentro di voi la pace: avrete un mondo nuovo, senza più iperboliche parabole, a misura del vostro cuore». Qualcuno potrebbe vedervi un’incoerenza, persino un po’ di confusione. Ma a Parazzoli non interessa la coerenza del sistema, anzi sono sicuro che sottoscrive in pieno le seguenti parole di Nietzsche: «Diffido di tutti i sistematici e li evito. La volontà  di sistema è una mancanza di onestà ». A uno che teorizza la dissolvenza del Dio unico, la pluralità  e anche una certa dissonanza dei sentieri proposti non può risultare sgradita, semmai è proprio ciò che va cercando. (…)
Ferruccio Parazzoli ha voluto indagare lo sfondo oscuro, «scoprire il punto oscuro del mondo in cui piantare la mia leva per rovesciarlo», come si legge nel «Discorso di Gesù morto». In queste pagine l’ha fatto in forma saggistica, anche se non prive di invenzioni narrative, dopo che nei suoi numerosi romanzi, tra cui desidero ricordare Nessuno muore (Mondadori 2001) e Il mondo è rappresentazione (Mondadori 2011), l’ha fatto in forma narrativa. Ma l’indagine è unica, come unica è la vita. E l’indagine alla fine l’ha condotto ad abbracciare il panteismo. Questo libro si presenta quindi come l’onesto documento di un uomo che è stato cattolico per tutta la vita, e quindi naturalmente teista, e che ora non è più teista, bensì panteista. Questo comporta per lui che debba cessare di essere o di ritenersi cattolico? Non è detto, potrebbe benissimo confluire nel numero ogni giorno crescente di coloro che inaugurano nuovi modi di stare al mondo come cattolici, di coloro che non possono né vogliono sbarazzarsi di una radicata formazione cattolica, ma dall’altro non possono né vogliono mettere più a tacere una coscienza critica che impedisce di proseguire a credere una serie di infondate affermazioni teologiche proposte ancora oggi dalla Gerarchia. In questo senso Parazzoli si colloca a suo modo all’interno di quel fenomeno sempre più consistente all’interno del cattolicesimo che il filosofo Pietro Prini, anche lui cattolico, denominò «scisma sommerso», e che forse è solo la punta di un iceberg.


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