Karzai tra Stati uniti e taleban

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«La cooperazione del Pakistan renderebbe l’intera questione (del negoziato) più facile per noi, per i Taleban e per gli Stati uniti». Prima di partire per Islamabad, il presidente afghano Hamid Karzai ha lanciato segnali conciliatori da Kabul, nel corso di un’intervista al Wall Street Journal. Argomento più rilevante dell’intervista – frutto della tempestiva strategia mediatica di Karzai -, il negoziato con i movimenti anti-governativi: lo stesso di cui Karzai ha cominciato a parlare ieri in Pakistan con il primo ministro Yousuf Raza Gilani, e di cui continuerà  a discutere oggi con il presidente Ali Zardari e l’omologo iraniano Ahmadi Nejad in un importante incontro trilaterale, dedicato a sicurezza e affari commerciali. 
Sul primo punto, la posta in gioco è alta: la stabilità  futura dell’Afghanistan e, di conseguenza, di buona parte dell’Asia centrale e non solo. E difficile da ottenere: nel negoziato con i Taleban e i gruppi affini, si incastrano infatti interessi e obiettivi diversi, a volte confliggenti. Kabul e Washington, per esempio, hanno ancora idee diverse su tempi e modi del negoziato, come ha dimostrato il via libera degli Stati uniti all’apertura di un ufficio politico dei Taleban in Qatar, un’iniziativa prima criticata da Karzai, che si è sentito messo ai margini, e poi sostenuta dopo qualche vaga rassicurazione di Marc Grossman, l’inviato speciale americano per Afghanistan e Pakistan. A queste differenze si sommano gli obiettivi dei principali protagonisti del conflitto, gli Usa e i Taleban. 
I primi aspirano a una presenza di lungo periodo in Afghanistan in chiave geostrategica, che sia legittimata da un accordo di partenariato che ancora non sono riusciti a ottenere, mentre i secondi ripetono che non accetteranno mai un’occupazione prolungata. Su molte questioni i Taleban negli ultimi mesi sono apparsi più disponibili, dichiarandosi pubblicamente in cerca «di una comprensione reciproca» con la comunità  internazionale sul tema della pace, ma sul partenariato con gli Stati uniti tengono ancora la «barra dritta»: forse per usare questa carta più tardi, quando le trattative – che sono in corso, come tutti si affrettano a ribadire – si faranno serie. E forse anche per evitare una spaccatura ulteriore in un movimento in cui la discussione interna è già  piuttosto vivace, e la cui unità  è compromessa in parte dall’indebolimento della catena di comando, in parte dalla difficoltà  di mantenere l’egemonia politica in un panorama composto da gruppi armati con agende differenti (il network Haqqani, l’Hezb-e-islami tra gli altri), in parte dalla difficoltà  di smarcarsi dall’abbraccio dei servizi pakistani. 
E sta proprio qui, nell’appoggio del Pakistan ai movimenti ribelli, una delle chiavi per risolvere il rebus afghano, nonché una delle ragioni per cui molti occhi sono puntati sugli incontri di Islamabad. Difficile prevedere cosa ne uscirà . I pakistani ripetono di garantire ogni appoggio possibile agli sforzi per la pace, ma lo stesso Karzai ha voluto precisare, di fronte ai giornalisti americani del Wall Strett Journal, che per ora il fatto che i servizi segreti pakistani rinuncino a sostenere i ribelli «sono solo speranze».


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