La civiltà  delle macchine 2.0

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È un normale lunedì di febbraio e, alla borsa del petrolio di New York, mancano una ventina di minuti al momento cruciale del fixing della quotazione di chiusura del barile. Improvvisamente, Globex, la piattaforma elettronica su cui passa il 99 per cento delle transazioni sui futures americani del petrolio, si blocca. Gli schermi degli operatori sono congelati: non si compra e non si vende più nulla. Lo sconcerto dura poco: gli operatori si alzano dalle scrivanie e cominciano a scendere, dai piani superiori, alla vecchia sala di contrattazioni del Nymex. E ricominciano a lavorare. Come ai vecchi tempi. Per un po’, sembra di assistere alla scena finale di “Una poltrona per due”, il film di John Landis, con Eddie Murphy e Dan Aykroyd. Foglietti che girano, mani che si alzano con una, due, tre dita levate, qualche strizzata d’occhio.
Ma “Una poltrona per due” è un film del 1983 e, da vent’anni, le borse non funzionano più così. Gli operatori del Nymex si sono, forse, anche divertiti, ma se la stessa cosa fosse accaduta alla borsa del petrolio di Londra, dove la sala contrattazioni, semplicemente, non c’è, il mercato del greggio sarebbe rimasto paralizzato. Perché, oggi, la finanza funziona via computer. Il terminale registra i prezzi che circolano sul server e compra o vende, quando il prezzo corrisponde a quello che, secondo le equazioni che ha incorporate, può dare un profitto. A questo punto, propone l’affare al terminale corrispondente. Questo, se sta bene alle sue equazioni, accetta. I due segnalano la transazione al server della borsa, che provvede a registrarla. I server delle due aziende digeriscono il mutamento di portafoglio, altri server calcolano il flusso di denaro in entrata o in uscita e un altro server ancora, se ci fosse la Tobin tax, si preoccuperebbe anche di computare e pagare la tassa. Tutto nel giro di nanosecondi, troppo veloce per l’essere umano. 
Ci stanno tagliando fuori? Dai benevoli automi di Asimov (“Io, robot”) all’inquietante Hal di Kubrick (“Odissea nello spazio”), fino al perfido Virax del recentissimo thriller di Robert Harris (“L’indice della paura”) che agisce proprio nel mondo degli hedge funds e della finanza, non è un incubo nuovo. Ma il quesito su chi dominerà  il mondo possiamo lasciarlo, per ora, alla fantascienza. Il punto è capire se quello a cui stiamo assistendo – un po’ dandolo per scontato, un po’ senza valutarlo appieno – sia quella profonda rivoluzione dell’economia, che un guru delle tecnologia, William Brian Arthur paragona al boom delle ferrovie che, nella seconda metà  dell’800, proiettò gli Stati Uniti da modesta economia agricola al rango di massima potenza mondiale. Dalla Rivoluzione Industriale in poi, non è più avvenuto nulla di simile. Perché la finanza d’assalto del “flash trading” è solo un capitolo – e neanche il più importante – della trasformazione in corso.
Vent’anni fa, se entravate in un aeroporto, andavate al banco della compagnia aerea e presentavate il vostro biglietto di carta ad una signorina. Questa vi registrava su un computer, segnalava al server che eravate arrivato, controllava i vostri documenti e prendeva in consegna il bagaglio. Oggi, quando arrivate in aeroporto, cercate una macchinetta. Ci infilate una carta di credito e, nel giro di tre-quattro secondi, vi restituisce carta d’imbarco, ricevuta e l’etichetta per il bagaglio. Tutto questo, naturalmente, lo sapevamo già . Dov’è la svolta, il punto chiave? Il punto chiave, dice Arthur è proprio in quei tre-quattro secondi. Nel momento in cui infilate la carta di credito, scatta una fitta conversazione, che si svolge interamente fra macchine. Una serie di computer, controlla e confronta il vostro nome, lo stato del volo, la vostra storia di viaggi e possibili problemi di sicurezza. Valuta la distribuzione del peso sull’aereo per assegnarvi il posto, decide se avete diritto o meno alla sala Vip, pondera le coincidenze con altri voli e cambia il percorso previsto, se, magari, un volo è stato annullato. È una conversazione fra server che parlano con altri server, che parlano con satelliti, che parlano con computer (magari a Los Angeles, dove state andando, per annunciare che siete in regola con il visto americano), attraverso una batteria di switches e router che convogliano avanti e indietro l’informazione, via via aggiornata. Lo stesso avviene se spedite una merce. Una volta, ci sarebbe stato qualcuno con una lista in mano e la matita dietro l’orecchio, che avrebbe spuntato il collo sul suo elenco, controllato etichette, riempito formulari e anche annunciato per telefono il carico alla destinazione successiva. Oggi uno scanner legge un codice a barre e spedisce il carico automaticamente, controllando depositi e destinazioni.
Di fatto, cose, persone, processi esistenti nell’economia fisica, quella che tocchiamo e abbiamo sott’occhio vengono assunti in una economia virtuale, dove vengono elettronicamente lavorati e processati, fino a che non vengono restituiti all’economia reale. Questa economia digitale non produce nulla di tangibile: non rifà  i letti in un albergo, non versa il succo d’arancia nel mio bicchiere, non posa i mattoni di un muro, non monta i fari su un’auto. Ma, osserva Arthur, rappresenta una fetta cospicua dell’economia: aiuta gli architetti a disegnare edifici, controlla vendite e inventari, esegue transazioni e operazioni bancarie, controlla attrezzature, emette fatture, fornisce anche diagnosi cliniche. In un articolo sulla rivista di una grande società  di consulenza, la McKinsey, Arthur definisce l’economia digitale, “la seconda economia”. “Vasta, silenziosa, connessa, invisibile, autonoma (nel senso che è progettata da esseri umani, che però non la gestiscono direttamente), globale” questa economia è in grado di adattarsi da sola al mutare delle circostanze, di autoorganizzarsi, autostrutturarsi e anche autoaggiustarsi. Il cervello dell’economia è ancora quello umano, ma il sistema nervoso è questa seconda economia digitale. Inseguendo l’evoluzione di Internet, ne abbiamo annotato il passaggio dal p-p (persona a persona), al b-b (azienda ad azienda) al p-b (persona-azienda, l’e-commerce). Ma ci è sfuggito che la trasformazione più profonda era l’m-m: macchina a macchina.
Quanto è grande, quanto pesa la seconda economia? Secondo un altro guru della tecnologia, Yuri Milner, attualmente ci sono nel mondo 2 miliardi di persone connesse a Internet, che diventeranno 5 miliardi nel 2020. Ma le macchine connesse (pc, telefonini, server) connessi sono già  oggi 5 miliardi e diventeranno 20 miliardi nel giro di dieci anni. Arthur tenta di calcolare quanto valga tutto questo. Dal 1995, quando decolla il processo di informatizzazione, la produttività  del lavoro è cresciuta, negli Usa, del 2,5-3 per cento l’anno. Probabilmente fra i due terzi e il 100 per cento di questa crescita è dovuta proprio all’informatizzazione. Diciamo, dunque, che all’espansione del digitale va ricondotto un aumento del 2,4 per cento della produttività  del complesso dell’economia. Un’economia che cresce del 2,4 per cento l’anno, raddoppia in trent’anni: nel 2025, la seconda economia sarà  grande come l’economia reale del 1995, pre-digitale.
E’ un calcolo approssimativo e anche assai discutibile. Ma fornisce un’idea dell’ordine di grandezza di cui stiamo parlando: la seconda economia non è solo una marginale aggiunta all’economia reale.
Le conseguenze sono profonde e non tutte piacevoli. Una produttività  che cresce del 2,4 per cento può voler dire che, con lo stesso numero di lavoratori, si produce il 2,4 per cento in più. Ma anche che si produce la stessa ricchezza, con il 2,4 per cento di lavoratori in meno. In ogni caso, la variabile sono i posti di lavoro. Non è la prima volta, negli ultimi due secoli, in cui il mondo si è trovato ad affrontare processi simili. La meccanizzazione dell’agricoltura ha tagliato l’occupazione agricola e la gente è andata a lavorare nell’industria. La meccanizzazione dell’industria ha tagliato l’occupazione nell’industria e la gente è andata a lavorare nei servizi. Ma adesso? Fattorini, magazzinieri, contabili, telefoniste, dattilografe sono tutti lavori inghiottiti dalla seconda economia. La società  digitale del futuro sarà  più prospera ma offrirà  meno posti di lavoro. Come Robert Harris fa dire al terribile Virak nello snodo finale de “L’indice della paura”: “L’azienda del futuro non avrà  lavoratori”. O, fuori dalle visioni apocalittiche, molto pochi. A Facebook, sottolinea Milner, ci sono 700 ingegneri per prendersi cura di oltre 750 milioni di utenti. In generale, una grande azienda del mondo di Internet fattura 1 milione di dollari per addetto, quando un’azienda del mondo non virtuale si ferma a 100-200 mila dollari. L’economia digitale sembra suggerire un futuro di pochi ricchi e molti poveri, perché il metodo tradizionale di distribuzione della ricchezza – posti di lavoro e stipendi – si è largamente inceppato. Bisognerà  inventarsi qualcos’altro.


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