L’eccezione permanente

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Emergenza-neve, emergenza-traffico, emergenza-rifiuti, emergenza-immigrazione. Più che situazioni eccezionali, le continue emergenze sembrano diventate la norma paradossale che scandisce, e in qualche modo condiziona, le nostre vite. A ognuna di esse fanno riscontro misure straordinarie che rischiano di stravolgere le procedure democratiche, dando spesso luogo a pratiche tutt’altro che trasparenti. Altre volte, al contrario, le emergenze vengono ignorate, o minimizzate, da coloro che dovrebbero fronteggiarle con conseguenze ancora più gravi per le popolazioni interessate. Ma esiste una maniera di valutare in termini oggettivi il loro rilievo, cercando di evitare sia l’enfasi che la sottovalutazione? Come misurare, senza eccessi e senza negligenze, quello che si chiama uno “stato di necessità “?
Per tentare di rispondere a questa domanda in termini non congiunturali, è bene approfondire un concetto di per sé vischioso come appunto quello di emergenza. Nella riflessione contemporanea esso trova, per così dire, due occorrenze, entrambe piuttosto fluide sotto il profilo concettuale. La prima è riconducibile ad una teoria, l’English Emergentism, elaborata in Inghilterra negli anni Venti del secolo scorso e poi ripresa, ad ondate successive, fino ad oggi, come raccontano P. Clayton e P. Davies in The Re-Emergence of Emergence (Oxford University Press 2008). Essa si riferisce a fenomeni biologici, come la mente e la stessa vita, o anche socio-culturali, caratterizzati da una dose di discontinuità  e di imprevedibilità  rispetto all’ambito entro cui si generano. Un fenomeno è considerato “emergente” quando è irriducibile alle parti che lo compongono – come appunto la vita rispetto alla materia o la mente umana rispetto al cervello. 
A questa prima accezione del concetto di emergenza – alla cui definizione hanno variamente contribuito filosofi come Nagel, Popper o Morin – ne fa riscontro un’altra, di carattere giuridico-politico. Al suo centro è il complesso, ed anche ambiguo, rapporto tra norma ed eccezione. Da questo punto di vista stato di emergenza è ciò che minaccia un dato ordine politico, tanto da spingerlo ad attivare un potere straordinario in grado di difenderlo con misure eccezionali, quali possono essere la nomina di un commissario o la decretazione di urgenza. Come ha magistralmente spiegato Carl Schmitt, tali eventi non solo non fuoriescono dall’ordine giuridico, ma ne costituiscono il nucleo originario: ogni potere costituito nasce da un potere costituente che lo pone in essere senza mai tacere del tutto. Per potersi salvaguardare, in determinate circostanze, il diritto si sospende temporaneamente aprendo una lacuna al proprio interno.
Il problema cui oggi ci troviamo di fronte è che negli attuali regimi biopolitici tale possibilità  di sospensione legale della legge, propria di ogni ordinamento giuridico, tende a divenire permanente, ponendosi come il nuovo paradigma di governo. Pur in modo diverso dall’emergentismo inglese, anche qui è in gioco la vita umana quale soggetto e insieme oggetto dell’emergenza. Come ha spiegato Giorgio Agamben in Stato di eccezione (Bollati Boringhieri 2003), il diritto include in sé il vivente attraverso la propria disattivazione. Ma se una misura temporanea ed eccezionale diventa una vera e propria tecnica di governo, allora l’orizzonte politico all’interno del quale operiamo va interamente ripensato.


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