QUEI NUOVI MONOLOGHI IN DIFESA DELLE DONNE

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Conosciuta per i suoi Monologhi della vagina. Ormai tradotti in più di trenta lingue e portati in scena ogni anno in tutto il mondo. Ma Eve Ensler non è solo l’autrice di questa famosa pièce teatrale diventata un simbolo per molte. È anche e soprattutto una scrittrice impegnata e una femminista convinta che, da più di vent’anni, si batte contro le violenze sulle donne. La Ensler vuole che la gente si renda conto che, nonostante tutti i progressi e i discorsi e l’impegno, la violenza che subiscono le donne continua ad essere uno dei più grandi flagelli contemporanei. E per questo ha deciso di non fermarsi mai. 
Così dopo aver dato vita nel 1998 al movimento del V-Day, che ogni anno organizza eventi e manifestazioni creative (sarà  a Milano il 2 aprile al teatro dell’Elfo Puccini), continua a scrivere, a recitare, a pubblicare. Perché l’arma più efficace contro la violenza è la parola: parole per dire quello che per tanto tempo si è taciuto, parole per battere la vergogna, il senso di colpa, la paura, la solitudine. 
Un metodo, il suo, che ha infranto molti tabù. “Parlare del non detto. Parlare del già  detto in modo nuovo e vitale, parlare del dolore, parlare della fame. Parlare. Parlare della violenza sulle donne”. È così che inizia l’ultimo libro di Eve Ensler, A Memory, a Monologue, a Rant and a Prayer. Una raccolta di memorie, monologhi, invettive e preghiere recitate a New York nel 2006, durante il festival Until the Violence Stops. Una serie di testi inediti sul tema delle violenze contro le donne che la Ensler aveva chiesto a scrittrici e scrittori (c’è anche Dave Eggers) per invitare i newyorchesi a prendere posizione e fare in modo che il mondo diventasse un luogo più sicuro per tutte le donne e tutte le bambine. Perché il meccanismo della violenza è perverso: non solo controlla e sminuisce le donne mantenendole al “loro posto”, ma le distrugge. Visto che è estremamente difficile, per una donna che subisce violenze e umiliazioni, confessare ciò che ha vissuto o continua a vivere. Le parole mancano, si balbetta, non si riesce a spiegare esattamente ciò che è successo. Ci vogliono anni per poter riuscire ad integrare questi “pezzi di vita” all’interno di un racconto coerente. Eppure è solo raccontando le storie di questa violenza che si può legittimare l’esperienza femminile, svelando ciò che accade nell’oscurità , lontano dagli sguardi. Quando tutto sembra “perfetto”, come il matrimonio di cui parla Edward Albee e che dopo qualche anno si frantuma, perché “lui” ama i lividi e il sangue, mentre “lei” non sa più che fare: “Chi ero io? Chi sono io? Non c’è niente da fare. Non posso andarmene”. È solo scrivendo che si può veramente denunciare la barbarie del razzismo, quando sembra “normale” che una donna di colore sia violentata perché “il suo corpo, come i corpi di tutte le donne nere, non le è mai appartenuto davvero; o forse non è mai appartenuto solo a lei”, come scrive Michael Eric Dyson. Solo le parole possono trasformarsi in preghiera, perché per fermare questa violenza, come dice Alice Walzer, la donna deve cominciare a “fermare la violenza contro se stessa”.
L’antologia curata da Eve Ensler è libro particolare ed emozionante, tradotto ora anche in italiano da Annalisa Carena per Piemme. I monologhi e le invettive non sono tutti dello stesso livello. Ma esistono alcune perle che rendono il libro molto bello. Peccato che l’editore italiano abbia voluto cambiare il titolo per trasformarlo in un ormai banale: Se non ora quando? Anche perché l’antologia curata dalla Ensler non è solo un “evento editoriale”. Era nato perché la parola delle donne si liberasse all’insegna della lettera “V” (Vittoria, Valentino – visto che il primo fu fatto il 14 febbraio – Vagina) del V-Day. Ma poi è diventato un’opera narrativa, sociale, politica, il cui messaggio universale non può ridursi ad un semplice slogan. 
Certo, non si potrà  mai definitivamente eliminare l’ambiguità  profonda che ogni essere umano si porta dentro. Nessuno di noi è immune dall’odio, dall’invidia, dalla volontà  di dominio. Ma le parole aiutano a ritrovare un senso. Aiutano, non solo a dire, ma anche a fare, come hanno spiegato bene i filosofi americani Austin e Searle. Perché il linguaggio è sempre performativo. È un azione, che può cambiare il mondo.


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