Spaccatura in Hamas

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Fatto sta che dopo le ultime tre udienze «lampo» (durata media 5 minuti), quella di ieri è stata per così dire «normale», almeno nello svolgimento e nella durata (circa un’ora). Sono finalmente apparsi in aula i testimoni convocati dalla difesa, che non si erano presentati alle ultime udienze. Nessuna traccia ancora di Amr Abu Ghoula, agli arresti domiciliari perché accusato di favoreggiamento e non dell’assassinio di Vittorio. Di Abu Ghoula non si sa più nulla. Ha violato l’ordine della corte di partecipare alle udienze e contro di lui è stato spiccato un mandato di arresto. Al tribunale però nessuno sa o vuole dirci dove sia finito.
La strategia della difesa è chiara. L’obiettivo è quello di scaricare ogni responsabilità  sul capo della presunta cellula salafita che ha rapito e ucciso Vittorio il 15 aprile dello scorso anno, il 22enne giordano Abdel Rahman Breizat, morto in un conflitto a fuoco con la polizia di Hamas. I due palestinesi chiamati ieri a testimoniare, un ausiliario della difesa civile, Amr Sourur, e Mohammed Salfiti, padre di uno degli imputati (Mahmud Salfiti), hanno provato ad alleggerire la posizione dei tre alla sbarra. «Mio figlio non faceva parte di alcun gruppo salafita, era di Hamas», ha detto Mohammed Salfiti che ricorda di aver visto Breizat tre volte a casa sua. «Li conosco tutti (gli imputati), non hanno mai espresso tesi politiche particolari, non mi hanno mai detto di essere salafiti», ha aggiunto da parte sua Amr Sourur. In sostanza – tenta di dimostrare la difesa – gli imputati sarebbero stati «usati» dal giordano, che, da solo, avrebbe scelto di uccidere Vittorio, senza attendere la scadenza dell’ultimatum lanciato con video postato su youtube. Gli altri rapitori, secondo gli avvocati degli imputati, sapevano che il rapimento era finalizzato solo a scambiare Vittorio con lo sceicco Abdel Walid al Maqdisi, l’ideologo del gruppo Tawhid wal Jihad incarcerato un anno fa da Hamas. Tesi difensiva che contrasta nettamente con la confessione di Mahmud Salfiti secondo il quale tutti i membri del gruppo avevano approvato l’eliminazione immediata dell’ostaggio se le cose non fossero andate per il «verso giusto». E’ da decifrare inoltre il fine della convocazione ieri in aula dell’avvocato Mohammed Bseiso, del Centro palestinese per i diritti umani, al quale è stato chiesto di chiarire e tradurre in arabo il contenuto della lettera inviata dalla famiglia Arrigoni qualche settimana a Gaza in cui si esprime netta contrarietà  ad una eventuale condanna a morte degli imputati. Dopo aver ascoltato Bseiso la corte ha aggiornato il processo al prossimo 27 febbraio. 
A Gaza non c’è solo il processo. Gli abitanti seguono anche la spaccatura interna ad Hamas, tra sostenitori ed oppositori dell’accordo di riconciliazione con Fatah firmato a Doha dal leader in esilio Khaled Meshaal. Il capo dell’ala militare, Mohammed Deif, e i deputati eletti a Gaza, guidati da Khalil Haya, si sono schierati dalla parte di Mahmud Zahar, uno dei fondatori di Hamas, che sabato ha lanciato un attacco durissimo a Meshaal. I dissidenti rifiutano la nomina, decisa a Doha, del presidente palestinese Abu Mazen a capo di un governo di unità  nazionale. Dalla parte di Meshaal invece sono schierati il vice comandante militare, Ahmad Jabari, e i deputati di Hamas in Cisgiordania. Il premier Ismail Haniyeh media tra le posizioni.
Meshaal, però, dovrebbe ottenere il via libera nel vertice di Hamas previsto entro un paio di giorni, ma l’annuncio del nuovo governo palestinese, previsto il 18 febbraio, è in dubbio.


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