Angusti orizzonti nell’Italia di fine ‘800

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«Si vorrebbe non avere più, né marito, né casa, né figli, né tetto, per vagare in quella vastità  di deserto, sotto quegli ardori di cielo, ed essere amate a quel modo, ed inebriarsi di quel grande sogno e di quella grande disperazione». Così aveva scritto in Prima morire nel 1881. Marchesa Colombi, alias Maria Antonietta Torriani, aveva conosciuto sulla propria pelle quali strettoie, quali bivi coatti apparecchiasse alle donne il suo diciannovesimo secolo, quella grande quasi invisibile «matrice percettiva» che anche lei, come allora accadeva a tante, in un primo tempo, aveva probabilmente contemplato come l’unica possibile.
Nata nel 1840 nell’allora regno di Sardegna, nel minuscolo orizzonte di una cittadina come Novara, dove aveva frequentato il «Civico Istituto Bellini d’Arti e Mestieri», crescendo nell’alveo di una famiglia piccolo borghese, dopo aver perso prima il padre e poi la madre, aveva impresso una sterzata cruciale alla sua vita trasferendosi a Milano e iniziando a collaborare con alcune riviste (nel frattempo, era il 1865, non si parlava più di «regni» ma di Italia). Ma certo, nel suo tracciato di donna in questi controversi ottocenteschi albori di unità  nazionale, spartiacque era stato l’imbattersi in Annamaria Mozzoni, fondamentale molla propulsiva e specchio del movimento femminile delle origini: con lei aveva iniziato a percepire la non ineluttabilità  della matrice, la luce oltre il buio soffocante di vite in apparenza murate. Sempre con lei, oltre che pubblicista, in anni che, a cominciare dal ’48, avevano visto crescere enormemente lo spessore della partecipazione femminile alla professione giornalistica, si era scoperta insegnante e conferenziera per la causa emancipazionista: nel 1871 erano state a Genova, Firenze e Bologna, sperimentando, insieme all’ebbrezza di quei pionieristici viaggi in treno, la prima deflagrante partecipazione allo spazio pubblico. Era stato poi nel ’77 che, dopo il matrimonio con Eugenio Torelli Viollier, iniziando a collaborare con l’appena nato «Corriere della Sera» (che vedrà  il marito fondatore e primo direttore dal ’76), era nata ufficialmente al mondo con lo pseudonimo letterario di Marchesa Colombi (personaggio comico preso in prestito a una pièce di Paolo Ferrari), aprendo per sé uno spazio di ricerca tra invenzione e identità . Quindi era stata autrice di novelle (Scene nuziali), di un bestseller dell’epoca come La gente per bene – piccolo galateo da ben ventisette edizioni ! – e ancora romanziera con In risaia e Dopo il caffè (’78), e poi appunto con Prima morire, scrittrice di quattro romanzi per l’infanzia, di due testi teatrali (’82), nonché musa di Carducci, che per lei aveva composto la liricaAutunno romantico.
In seguito Marchesa Colombi ovvero Maria Antonietta Torriani, avrebbe passato il guado, conoscendo, come Annamaria Mozzoni, la separazione dal marito, non prima però di averci lasciato, con Un matrimonio in provincia(’85), la sua magnifica testimonianza sull’argomento, approfondita sorprendente analisi socio-psicologico-letteraria e prezioso dagherrotipo per parole sullo stato dell’istituzione come riflesso di una intera società  nell’Italia postunitaria. Un romanzo che Barbès Editori, grazie alla cura di Tommaso Gurrieri, a ragione ripropone oggi (pp. 140, euro 8), dando continuità  al giudizio critico di Natalia Ginzburg e Italo Calvino, i primi a coglierne, nell’edizione Einaudi del 1973 – a ben cinquant’anni dalla morte della scrittrice scomparsa a Torino nel 1920 – il sottile valore.
«È difficile immaginare una gioventù più monotona, più squallida, più destituita di ogni gioia della mia»: ovvero famiglia, casa, formazione e stile di vita in un piccolo centro della provincia piemontese nella prima metà  dell’800 (la stessa Novara dell’autrice). Nella minuziosa panoramica che fa da incipit al romanzo, c’è tutto il piccolo mondo allora non ancora «antico» di Denza («diminutivo ridicolo» dal «nome infelice di Gaudenzia»), voce narrante e nostra guida in questo quasi beckettiano preludio alle nozze, che fa da canale al fluire dell’opera. Una madre che muore quando lei ha soltanto un anno (secondo una traccia «complementare» al vissuto dell’autrice), un padre tutto economie, lumi alla Madonna e moto forzato all’aria aperta, con annessa unica anomala «educazione letteraria» delle figlie (persino I tre moschettieri sono un libro proibito), una sorella più grande ancora più ingenua e meno avvenente, una zia «nubile» che «vive» in un anfratto dietro un paravento, e poi una matrigna, quindi madre di un fratellastro, già  «vecchia» a quarantatré anni e bonario angelo sterminatore di qualunque appassita residua frivolezza della casa: ecco i fili d’affetti in cui Denza si trova iscritta. Stanze interiori, appunto: nella descrizione attenta della casa, coi suoi spazi e i suoi riti, con i suoi anfratti spogli e dimenticati, Marchesa Colombi, accogliendo note di coraggioso nascente verismo, ci conduce innanzi alle immagini sacre attaccate al muro con la pasta (!), davanti al rosario di avellane irrancidito sulla parete, fino a rivelarci tutta la muffa uggiosa e «inalterabile» che «la sua» vuole scrollarsi di dosso, la cappa insopportabile di quel vissuto. Cosa resta allora a Denza se non il cullarsi nella propria bellezza «beata e minchiona», come la definisce la matrigna, o il coltivare il sogno di un possibile fidanzato, dopo che grazie alle «sconvolgenti» rivelazioni della cugina si è scoperta oggetto di attenzioni da parte di un giovane («peraltro agiato, peccato solo che sia grasso»). 
Miscelando così sapientemente il basso e l’alto, Liala del futuro e Jane Austen, Goldoni e Delly, l’autrice interseca un registro in apparenza lieve e mai tragico a un sostrato di riflessione ben più caleidoscopica e profonda, rivelandoci, tra realismo e brillante ironia (a tratti esilarante, tanto da far venire in mente Campanile: «In strada guardavo con attenzione tutti gli uomini un po’ grassi, e mi pareva d’aver sempre aborrito i magri», tutto il retrogusto agro della recita prematrimoniale. Perché innanzi all’abisso annientante della «zitellaggine»(ne è monito la figura della zia), la costruzione anche solo dell’idea di un matrimonio, non soltanto è contemplata come unica possibile chance di esistenza sociale e fuga dall’uggia della casa d’origine, ma anche come via di accesso al desiderio e all’amore, in un contesto di fatto biecamente materialista e deprivato di tenerezza (dove le difficoltà  di contatto e la minima conoscenza cui i codici dell’epoca costringono i due promessi diventano anche lo spazio sconfinato della proiezione del sogno). In questo sta la grandezza incantevole del romanzo: l’autrice sempre un passo innanzi a Denza, sempre oltre il suo tempo, eppure tutta con lei, vicina alla sua universale ricerca d’amore, ai suoi spasimi ridicoli e teneri, alle sue idealistiche ingenuità . «Perché si può dire una bugia solo per salvare il mondo, o quanto meno il proprio cuore».


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