BANANA REPUBLIC

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Finisce così: “un cuore si è ammalato nel paese della libertà “. È un verso di “Banana Republic”, la canzone che Lucio Dalla cantava con Francesco De Gregori. Una di quelle che lo rappresentava, per il testo che parla di “storia improbabile”, “nostalgia a cui fare il verso”, “bugia da raccontarsi mille volte, ma senza crederci”. Banana Republic non è mai stato davvero un “Paese dei Tropici”, piuttosto questa Italia che Dalla ha attraversato, canzonandola eppure accettandola, buttandola in un frullato di mitologia nazionalpopolare che ha mischiato Nuvolari e Caruso, Cristoforo Colombo e Gesù Bambino. Era un genio accondiscendente, uno di quelli che si piegano pur di varcare la soglia e chi resta fuori a invocare schiene dritte qualche volta, semplicemente, si perde lo spettacolo.
Nella Banana Republic Anni Sessanta, movimentata e movimentista, Dalla si esibiva scalzo nei locali torinesi, sperimentava il gorgheggio e se stesso facendo l’attore per i fratelli Taviani. Eppure già  bordeggiava i baracconi della musica istituzionale: Cantagiro e Festival di Sanremo. All’inizio degli Anni Settanta sviluppava la strategia dell’eversione morbida, attaccava il sistema dall’interno, accettando il prezzo del pedaggio d’ingresso. Non è esagerato definire storica la sua apparizione a Sanremo nel 1971 con “4 marzo 1943”. Era un’Italia bacchettona e confusa, esattamente come questa. Anche allora si mandavano i censori della tv di Stato a vigilare sulla morale alla lavanda. E il pericolo già  erano i cantanti, così pervasi dalla parola divina da volerla mettere in musica. 
C’è chi ha pensato che Dalla si fosse venduto l’anima accettando di cambiare il titolo della sua canzone (in origine, “Gesù Bambino”), sostituendo “i ladri e le puttane” con l’anonima “gente del porto”. Ma su quel palco dove Luigi Tenco aveva trovato la morte per overdose di disagio lui era riuscito a presentarsi con il primo di una serie di copricapi improbabili e a raccontare la storia di una ragazza madre e del suo figlio orgoglioso di essere nato. Una canzone antiabortista, ma anche un inno alla vita per quello che la rende strepitosa: sesso all’aperto, partite di carte, ricordi che si confondono con i sogni. Concepiamo errori e chiediamo loro di perdonarci per questo. Dalla, che non avrebbe mai potuto essere padre, invocava l’assoluzione dei peccati per una generazione e quelli storcevano il naso perché nominava il Figlio invano. E allora lui alzava il tiro, l’estate stessa, mandando in quell’altro circo chiamato “Un disco per l’estate” il suo amico Rosalino Cellamare, in arte Ron, a canzonare un altro tabù. “Il gigante e la bambina” si chiamava la canzone da lui musicata e scritta dalla stessa Paola Pallottino autrice di “4 marzo”. Anche qui digerì le correzioni: “il gigante adesso è in piedi con la sua spada d’amore” diventò “il gigante è un giardiniere, la bambina è come un fiore” e l’allusione era meno circostanziata ma non più oscura. Banana Republic è un Paese così: non affrontarlo di petto, prendilo da dietro e ti darà  tutto. 
Questo ha fatto Lucio Dalla, con decine di canzoni che contenevano il seme dell’irregolarità . Prendi una delle più famose, “Cara”, quella dove dice: “Sposta la bottiglia e lasciati guardare/se di tanti capelli ci si può fidare”. Ma anche, di nuovo: “i tuoi pochi anni e i miei che sono cento”. E se non fosse per il titolo e un aggettivo al femminile in concordanza con “farfalla” sarebbe (ma in realtà  è) un capolavoro di ambiguità . Come un attore gay a Hollywood, costretto a recitare da dongiovanni, ha continuato a cantare di amori etero in nome dell’ipocrisia da prima serata che governa Banana Republic, progressivamente scoprendosi fino al liberatorio “Balla balla ballerino” che celebrava il mistero: “sotto un cielo di ferro e di gesso l’uomo riesce ad amare lo stesso”. E di tutto: pesci nel profondo del mare e lupi nell’oscurità  del bosco, in un francescanesimo irridente. Ha sdoganato la “fica” in quel peana alla masturbazione che è “Disperato erotico stomp” e il “casso” in quel bordello che è “Washington”. Ha sbeffeggiato i tempi, il loro passaggio e se stesso. Nell’Italia cialtrona di questi ultimi anni si è mimetizzato sollevando polveroni di mediatica inutilità . Rispondendo al più stupido degli interrogativi (che sembra perseguitare il destino dei cantautori): ma è di destra o di sinistra, ha votato pd, aderito all’Opus Dei (poi smentendosi giacché così fan tutti), proclamato una incontenibile simpatia per Berlusconi. E “olé sono perduto”. Forse non ci capiva più niente, o forse aveva capito tutto. Siamo la storia che ci possiamo permettere e la commedia che vogliamo. Si è perfino scritto il suo epitaffio, fingendo di dedicarlo a un altro: “Sentì il dolore della musica, si alzò dal pianoforte, gli sembrò più dolce anche la morte”.


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