DA TOFANO A MUNARI LA PICCOLA RIVOLUZIONE DEGLI ALBI ILLUSTRATI

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Il presente e il passato dell’editoria per la prima infanzia, le innovazioni che sono nate in campo narrativo, e visivo in specie, il dibattito che le ha accompagnate: ecco i temi cui Marcella Terrusi dedica il suo Albi illustrati (Carocci, con prefazione di Antonio Faeti, pagg. 280, euro 23). Si tratta di un resoconto sui modi, diversi e cangianti, di «leggere, guardare, nominare il mondo» nelle opere destinate all’età  prescolare. L’itinerario tracciato dall’autrice insegue, lungo oltre un secolo, la creazione dei tramiti psicologici e artistici inventati, appunto, per consentire a un pubblico insolito di «leggere prima di leggere». 
Si parte dagli esperimenti effettuati nel tardo Ottocento inglese: un tempo in cui, secondo Terrusi, ha origine la conquista della nozione moderna dell'”alterità  infantile”, portando con sé l’esigenza di dilettare questa età  dell’oro con «abiti, giochi e libri meravigliosi appositamente creati». Può apparire singolare che un simile recinto riservato all’infanzia venga inaugurato proprio all’interno di una cultura, quella vittoriana, che si ritiene modellata su valori convenzionali e “all’antica”. 
La coincidenza in realtà  non mancò di stupire, così come venne considerata quasi rivoluzionaria la comparsa di un’opera, The book of Nonsense di Edward Lear, che da noi sarebbe stata conosciuta assai più tardi. Ciò avverrà  grazie a quel Gianni Rodari che alla nuova letteratura infantile offrirà  esempi di valore esemplare, accompagnati da esortazioni di principio, come quella di attenersi, rivolgendosi ai piccoli lettori, a una “grammatica della fantasia”(così s’intitolerà  un suo volume del 1973). Un invito seguito da direttive appassionate: «Con i bambini, nel loro interesse», sono parole di Rodari, «bisognerebbe stare attenti a non limitare le possibilità  dell’assurdo». 
Già  da un secolo un simile criterio somministrava nella Gran Bretagna, e poi negli Stati Uniti, a un’avanguardia infantile (dietro l’impulso, si suppone, di genitori eterodossi), esempi di un disegno inedito, «teste dei personaggi sproporzionate», nasi di paradossale lunghezza, menti pungenti come spade accompagnati da «espressioni enfatizzate e gesti e posture pieni di stupore o sgomento». 
I passi successivi, attraverso i quali la pubblicistica infantile si sarebbe affrancata dall’intento di educare i suoi lettori alla Virtù e al Bene animano il racconto di Marcella Terrusi. Un cammino che sarà  particolarmente faticoso – è il caso di aggiungere – in Italia. Qui, dagli albori del Risorgimento in poi, sembrò che i bambini venissero considerati «onesti uomini in erba»: questo, quanto meno, era il marchio moralistico che veniva impresso in ogni discorso o tramite grafico ad essi riservato. 
Basti pensare, sia, come progenitore del genere, al Giornale del fanciullo, diretto a partire dal 1834 dal letterato fiorentino Eugenio Thouar, sia a quel Giornalino della Domenica, diretto sempre a Firenze da Vamba (pseudonimo di Luigi Bertelli), un intellettuale di genuino stampo mazziniano che trattenne il suo settimanale sui toni di un pugnace «amor di patria» se non di un generico irredentismo. Il che vuol dire che fecero poca scuola sia le tendenze più spigliate che andavano diffondendosi nella letteratura per l’infanzia sulla scia geniale di Collodi, e perfino quell’impulso alla mentalità  “birichina” che lo stesso Vamba aveva promosso nel suo Giornalino di Giamburrasca (uscito nel settimanale nel 1907 e poi nel 1912 in volume). Perfino quando, nel 1908, il neonato Corriere dei piccoli adottò con immediato successo di pubblico le “funny pictures” importate dagli Stati Uniti, da Bibì e Bibò a Capitan Cocoricò e a Fortunello (esemplari cui ben presto si ispirarono personaggi italiani, dal Bonaventura di Sergio Tofano al sor Pampurio di Carlo Bisi) la nuvoletta che in origine conteneva le modiche battute di dialogo (il cosiddetto fumetto) venne sostituita, in calce a ciascuna vignetta, da ottonari a rima baciata: un tratto “italiano” che, almeno in parte, sottraeva a quelle immagini l’originaria modernità  sorridente. 
Perché l’approccio verso l’infanzia, e in particolare la più piccola, assumesse un’aria perentoria, bisognerà  aspettare, in parallelo temporale con l’attività  di Rodari, le edizioni Emme di Rosellina Archinto, dedicate dal 1966, con vivace spirito innovativo alla pubblicazione di albi illustrati per bambini in fase prescolare, e all’appassionato impegno di Bruno Munari, che nel 1972 diede vita per Einaudi alla collana di albi intitolata “Tantibambini”. Di questo personaggio – nel quale la maturità  artistica si univa alla pratica del mondo della comunicazione e un’eccelsa competenza tipografica – si riportano nel libro tante creazioni esemplari. 
Basta riportare qualche titolo degli “albi”, risalenti a un magistero creativo iniziato negli anni Quaranta, quando Munari prese a lavorare al suo catalogo narrativo: da Macchine per addormentare le sveglie ad Agitatori di code per cani pigri. Trame «inutili», li definisce l’autrice, «libri illeggibili», e infatti la loro diffusione non fu senza ostacoli. Ciò che Munari voleva offrire al microscopico pubblico dei suoi lettori erano «storie, e favole e fiabe e filastrocche senza maghi, senza streghe, senza principi da invidiare e senza principesse sciocche». E spiegava: «un prato può essere una favola, la libellula è più bella della fata, la cavalletta è molto misteriosa. Il calabrone è un mago perché vola stando fermo». Provate a immaginare qualcosa di più semplice e, insieme, di più benignamente eversivo.


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