La città  ideale non spezza i legami sociali

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La lingua corrente riserva delle sorprese. Così oggi ricorriamo spesso all’uso del privativo «senza». Parliamo di persone «senza fissa dimora» o di quelle «senza documenti», e, dal momento che sappiamo con tutta evidenza che la loro situazione è assai problematica, siamo portati indirettamente a credere, come se ciò fosse scontato, che avere una fissa dimora e dei documenti sia la condizione sufficiente della felicità . (…)
Sarà  anche vero, ma mi permetto d’insistere: il cumulo di residenze e la sicurezza dei più agiati provano che l’ideale della vita individuale non è necessariamente l’attaccamento a un luogo fisso, quello della cozza al suo scoglio, né il fatto di poter declinare la proprio identità  dietro richiesta, mostrando i documenti, ma, piuttosto, nella libertà  effettiva di circolare e di restare relativamente anonimi.
L’attrazione che esercitavano le città  nel corso del XIX secolo su coloro che fuggivano le campagne, che esercitano oggi le grandi città  del Nord sui migranti venuti dal Sud, è nata dalle medesima rappresentazione. Il carattere grandemente illusorio di quest’ultima è innegabile, ma per chi s’interroga sull’ideale della vita urbana ai nostri giorni è essenziale prenderla in considerazione.
La città  non cessa di ampliarsi. La maggioranza della popolazione mondiale vive in città  e la tendenza è irreversibile. Ma di quale città  si tratta? Ho proposto qualche nozione per descrivere ciò che potremmo chiamare l’urbanizzazione del pianeta, che corrisponde più o meno a ciò che noi chiamiamo globalizzazione per designare la generalizzazione del mercato, l’interdipendenza economica e finanziaria, l’estensione delle vie di circolazione e lo sviluppo dei nuovi mezzi di comunicazione elettronica. Da questo punto di vista, potremmo dire che il mondo è come un’immensa città . Paul Virilio ha utilizzato a questo proposito l’espressione di «metacittà  virtuale». Il «mondo città », come l’ho chiamato, è caratterizzato dalla mobilità  e l’uniformazione. Per un altro verso, le grandi metropoli si estendono e vi si trova tutta la diversità  (etnica, religiosa, sociale, economica), ma anche tutte le divisioni, del mondo. Così è possibile opporre la «città  mondo», le sue divisioni, i suoi punti di fissazione e i suoi contrasti al «mondo città », che ne costituisce il contesto globale e che appone in modo spettacolare su alcuni punti forti del paesaggio urbano la sua impronta estetica e funzionale: torri, aereoporti, centri commerciali o parchi di divertimento.
Più la grande città  si espande, più essa si «decentra». I «centri storici» diventano musei visitati da turisti e grandi luoghi di consumo di tutti i generi. I prezzi sono alti e il centro delle città  è sempre di più abitato da una popolazione agiata, spesso di origine straniera. L’attività  produttiva si sposta extra muros. I trasporti sono il problema principale dell’agglomerazione urbana. Le distanze sono spesso considerevoli tra il luogo d’abitazione e il luogo di lavoro. Il tessuto urbano si espande lungo le vie di circolazione, i fiumi e le coste. In Europa, le «periferie» urbane si fiancheggiano, si saldano, si confondono e ci si può persuadere che con la generalizzazione dell’«urbano» stiamo per perdere la «città ». (…)
Il luogo non si oppone al non-luogo come il bene al male o il vivere bene al vivere male. Il luogo assoluto sarebbe uno spazio dove a ciascuno sarebbe assegnato il domicilio in funzione della sua età , del suo sesso, del suo posto nella filiazione e delle norme del legame matrimoniale: uno spazio dove il senso sociale, inteso come l’insieme delle relazioni sociali autorizzate o prescritte, toccherebbe il suo apice e la solitudine sarebbe impossibile così come la libertà  individuale impensabile. Il non-luogo assoluto sarebbe uno spazio senza regole né vincoli collettivi di alcun tipo: uno spazio senza alterità , uno spazio di solitudine infinita. L’assoluto del luogo è totalitario, l’assoluto del non luogo è la morte. Evocare questi due estremi, significa definire nel medesimo tempo la posta in gioco di ogni politica democratica: come salvare il senso (sociale) senza uccidere la libertà  (individuale) e inversamente?
In un mondo globale, la risposta s’impone in termini spaziali: ripensare il locale. Malgrado le illusioni diffuse dalle tecnologie del comunicazione, dalla televisione a Internet, noi viviamo là  dove viviamo. L’ubiquità  e istantaneità  restano delle metafore. L’importante, con i mezzi di comunicazione, sta nel prenderli per ciò che sono: dei mezzi capaci di facilitare la vita, ma non di sostituirsi ad essa. Da questo punto di vista, il compito da assolvere è immenso. Si tratta di evitare che la sovrabbondanza d’immagini e messaggi porti a delle nuove forme d’isolamento. Per frenare questa deriva fin d’ora osservabile, le soluzioni saranno necessariamente spaziali, locali e, per dirla tutta, nel senso ampio del termine, politiche.
Come conciliare nello spazio urbano il senso del luogo e la libertà  del non-luogo? È possibile ripensare la città  nell’insieme e l’abitare nei dettagli?
Una città  non è un arcipelago. L’illusione creata da Le Corbusier di una vita centrata sull’alloggio e sull’unità  d’abitazione collettiva ha portato ai palazzoni delle nostre periferie, disertati abbastanza in fretta dai commerci e dai servizi che dovevano renderli eminentemente «vivibili». Si è trascurata la necessità  della relazione sociale e del contatto con l’esterno (…). Che cosa, nelle città  reali, evoca qualche aspetto di ciò che noi potremmo considerare come la città  ideale? Due esempi mi vengono in mente. Li idealizzo certamente, ma è proprio ciò in cui consta questo esercizio: reperire delle tracce d’ideale. Il primo esempio, di gran lunga il più convincente, è quello delle città  medie del Nord d’Italia, come Parma o Modena. Nel centro di queste città , la vita è intensa, la piazza pubblica resta un luogo d’incontro, si circola in bicicletta, si costeggiano naturalmente i grandi luoghi della storia. Il visitatore di passaggio ha l’impressione che potrebbe scivolare nell’intimità  di questo mondo amabile senza farsi riconoscere, stabilire delle relazioni senza esservi obbligato e passare da una città  all’altra per il semplice piacere degli occhi. Ma, si obietterà , bisogna proprio chiudere gli occhi, per ignorare tutto ciò che è contrario a questa visione da turista miope: la povertà , l’immigrazione, gli atteggiamenti di rifiuto… Ancora una volta mi fermo qui all’ideale, che esige, in effetti, una forma di miopia. Altro esempio: la vita di quartiere in un arrondissement parigino (…) Ogni programma d’insieme e ogni progetto di dettaglio dovrebbero associare diversi tipi di riflessioni: una riflessione d’urbanista sulle frontiere e gli equilibri interni al corpo della città , una riflessione d’architetto sulle continuità  e le rotture di stile, una riflessione antropologica sull’abitare oggi, che deve conciliare la necessità  d’aperture multiple sull’esterno e il bisogno d’intimità  privata. Grande cantiere di «rammendi» (nel senso delle sarte di un tempo e delle «rammagliatrici», che rammendavano i vestiti strappati o le calze smagliate). Bisognerebbe, in ogni modo possibile, rintracciare le frontiere tra i luoghi, tra l’urbano e il rurale, tra il centro e le periferie. Delle frontiere, ossia delle soglie, dei passaggi, delle porte ufficiali, per far saltare le barriere invisibili dell’esclusione implicita. Bisogna ridare la parola al paesaggio. (…) Ancora uno sforzo verso l’ideale… Questo ideale dovrebbe essere presente nella disposizione interna degli appartamenti più modesti, dove si dovrebbero combinare su piccola scala le tre dimensioni essenziali della vita umana: il privato individuale, eventualmente il pubblico (in questo caso familiare) e la relazione con l’esterno. Così formulato, l’ideale è utopico e non è evidentemente di competenza del solo architetto. Ma la materia dell’ideale o dell’utopia è già  presente. Per concludere, torno all’immagine della sarta e della rammagliatrice. Non è esclusiva dei grandi progetti che possano offrire bellezza a tutti gli sguardi, né del rimodellamento dei grandi paesaggi dove ognuno può perdersi e ritrovarsi. Essa vuole semplicemente ricordare che tutto comincia e tutto finisce con l’individuo più modesto, e che le più grandi imprese sono vane se non lo riguardano almeno un po’.
(Traduzione di Andrea Inglese)


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