Laboratorio Gramsci, il teorico della prassi

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Vi sono tanti buoni motivi per salutare come un positivo evento editoriale la pubblicazione di una corposa antologia di scritti gramsciani (Antonio Gramsci, Antologia, a cura di Antonio A. Santucci, Prefazione di Guido Liguori, Editori Riuniti University Press, pp. 485, euro 25). Il primo, e più importante, è la qualità  filologico-storica nella scelta dei testi, dovuta alla riconosciuta competenza di Antonio Santucci, tra i massimi studiosi del pensiero di Gramsci, prematuramente scomparso nel 2004 (vedi il manifesto del 20 gennaio scorso). Districarsi tra le centinaia di pagine degli scritti del comunista sardo nel tentativo di restituirne quel «pensiero in isviluppo», di cui egli parlava in una nota metodologica dei Quaderni del carcere dedicata ad una corretta lettura dell’opera di Marx, non è una cosa semplice e scontata. Spesso si è preferito antologizzare Gramsci ricorrendo ad una partizione tematica (il Risorgimento, gli intellettuali, l’educazione), ottenendo, beninteso, risultati utili e apprezzabili: ricordo solo, per restare in ambito educativo, le due antologie curate da Urbani e Manacorda sulla «pedagogia» gramsciana. 
La fiaba della democrazia
L’antologia curata da Santucci nel 1997, e oggi riproposta dal dinamico marchio degli Editori Riuniti University Press, riesce come poche a introdurre il lettore nel labirinto del pensiero gramsciano, dai primi scritti giovanili passando per il testo integralmente riproposto di Alcuni temi della quistione meridionale fino alle note carcerarie, offrendoci pagina dopo pagina in successione cronologica la tensione interdisciplinare e il metodo connettivo che caratterizzano i testi qui antologizzati, nel tentativo, come scrive Santucci, «di lasciare almeno intravvedere, accanto ai contenuti, anche l’originale metodo di lavoro dell’autore». 
Certamente, e di questo il curatore è ben consapevole, la lettura di questa antologia non può sostituire lo studio complessivo dell’opera gramsciana, che va condotto con serietà  e pazienza su tutti i suoi testi per evitare le tante semplificazioni e le troppe strumentalizzazioni a cui il suo pensiero è continuamente sottoposto. Ricordo solo il rinnovato clima di «caccia alle streghe» nei confronti di Gramsci e dei comunisti fatto proprio da Roberto Saviano, il quale ha recentemente esaltato su Repubblica un recente libro su Turati e Gramsci, in cui quest’ultimo viene presentato come il campione della pedagogia dell’intolleranza (ne ha scritto su queste pagine Guido Liguori il 3 Febbraio). O anche la ripresa di una vecchia ipotesi secondo la quale Gramsci, non più dirigente comunista e pensatore marxista, ma intellettuale eretico e campione del «libero pensiero», sarebbe stato fatto oggetto di un complotto, ordito ai suoi danni da parte dei trinariciuti compagni di partito al comando di Togliatti e Stalin, per non farlo uscire dal carcere fascista. (Per i più giovani: la parola «trinariciuti» fu coniata dallo scrittore Guareschi, creatore di Peppino e don Camillo, il quale in una serie di vignette disegnò il militante comunista anni Cinquanta con una terza narice da cui «respirava» le direttive di partito). E molto opportunamente Guido Liguori, nella prefazione a questa nuova edizione, ricorda quanto fossero cogenti per Antonio Gramsci le urgenze della storia, anche nel periodo carcerario, quando redigeva i suoi quaderni non perché dovessero divenire libri compiuti, ma proprio come risposta, in termini di pensiero e di rinnovata strategia, alla storica sconfitta del movimento operaio e comunista in Occidente. «Quando, – scrive Liguori – pochi giorni prima di morire, tornato in libertà , sia pure molto malato, egli redasse con l’aiuto dell’amico Piero Sraffa la richiesta – indirizzata a Mussolini – di poter andare a vivere in Unione Sovietica, lo fece certo spinto dal desiderio di rivedere la sua famiglia (…), ma anche per riprendere e continuare la sua battaglia politica, a cui mai aveva smesso di pensare, nell’ambito della “parte” che seguitava a sentire come sua: il movimento comunista nato in seguito alla Rivoluzione d’ottobre guidata da Lenin e vittoriosa in Russia nel 1917». 
Per concludere vorrei sottolineare l’importanza che riveste questa antologia come utile strumento didattico per quanti, in primo luogo gli studenti, vogliono avvicinarsi allo studio dell’opera di Gramsci (il quale, non va dimenticato, dedicò pagine fondamentali alle questioni pedagogiche e alla diffusione di un «nuovo principio educativo»).
Santucci ebbe sempre molto viva l’attenzione alla traduzione educativa del lascito gramsciano: senza una traduzione di massa del pensiero marxista, senza un’opera di mediazione didattica, viene meno la funzione del «filosofo democratico», l’eredità  marxiana non fertilizza, non entra in una relazione dialettica e dinamica con la società  di oggi e la discussione si rinsecchisce nelle conventicole di eruditi separati e lontani dai bisogni e dalle contraddizioni del presente. 
Un’eredità  dismessa
Nel 1977 l’editore Einaudi pubblicò le Lettere dal carcere nella collana «Narrativa per la scuola media» e nelle scuole italiane ne furono adottate trentamila copie. Dieci anni dopo ne furono adottate meno di sessanta copie. Oggi addirittura le Lettere dal carcere sono scomparse dalle librerie. Ed è un peccato che in questa antologia Santucci decise di non includerle (probabilmente anche per ragioni di spazio), proprio lui che ne curò nel 1996 l’edizione più completa dall’editore Sellerio, al quale sarebbe senz’altro opportuno chiederne una ristampa, oggi che non esistono più problemi di diritti, per consentire agli italiani di leggere un classico del pensiero moderno che, come scrisse Benedetto Croce, «appartiene anche a chi è di altro o opposto partito politico».


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