Mania di gigantismo e operai sottopagati ecco il lato oscuro dello show business

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Uno scatolone di ferro che neanche Vasco, manco i Rolling Stones. Se la gioca, per dire, con Madonna e U2, campioni del gigantismo dello show business che l’anno scorso, per scarrozzare il palco del loro tour, hanno messo in strada cento – cento – bilici. Sarà  che è ispirata al barocco di Gian Lorenzo Bernini; sarà  che se fai sold out in Australia e in Messico e in Brasile e poi ovunque in Europa, insomma, devi stupire il mondo, ma ogni volta che l’astronave della Pausini – quella di Inedito World Tour – tocca il suolo di una città , occorrono 150 persone del posto per dare manforte alla squadra (100 addetti) che gira tutto l’anno con la produzione. Una catena di montaggio e smontaggio. Composta da facchini, tecnici, rigger – i selezionatissimi operai-tarzan che come Matteo Armellini si arrampicano in cima al palco a sedici-venti metri di altezza. Per tre settimane stanno tutti lì sul pezzo: dentro il palasport, ad assemblare i pezzi di questo Lego ipertrofico largo ventiquattro metri e profondo dodici e che ha le forme di un tempio sdraiato. È fatto così: quattro imponenti colonne che fuggono verso la volta-megaschermo che chiude la scena. Altri due maxischermi laterali. E poi la prua, una grande passerella triangolare che spunta davanti al palco e penetra la platea abbracciandone, al tempo stesso, una parte all’interno dei suoi tre lati. La prua dove si sposta la Pausini può essere di tre lunghezze, a seconda della profondità  del palazzetto (o dello stadio). La versione long size misura 22 metri. A Reggio Calabria avrebbero steso quella «media», da 17. Avrebbero. Perché al PalaCalafiore dovevano ancora montare tutto. «L’allestimento della produzione al momento dell’incidente non era nemmeno partito» – tiene a precisare Ferdinando Salzano, amministratore delegato di F&P Group, la società  che organizza la tournée mondiale della cantante veneta. E la gigantesca impalcatura di acciaio che è venuta giù schiacciando Matteo? Quella è la base di tutto il lavoro: l’architrave. Si chiama ground support, si usa quando il palazzetto non è attrezzato per potere appendere i carichi al soffitto (le luci, gli schermi, gli audio, i motorizzati). I facchini scaricano il ground, pezzo per pezzo, dai Tir; lo trasportano all’interno del palasport assieme a tutto il resto, i bauli, gli impianti, le scenografie. È il primo ingranaggio della filiera dello show. Il serbatoio dei facchini sono le agenzie specializzate: sei euro l’ora per quindici e persino venti ore di lavoro al giorno. Giorno e notte. Operai, trasportatori, studenti che arrotondano. Racconta Diego Spagnoli, responsabile palco di Vasco Rossi, trent’anni di esperienza nel settore: «Ci sono anche ragazzi che non chiedono soldi e lavorano solo per potersi vedere gratis il concerto. Il problema che sta alla base di tutto, però, è un altro. In questa specie di gara muscolare a chi sfoggia il palco più grosso, per investire più denaro sulla struttura e gli impianti succede che nelle produzioni si risparmia sulla manodopera. Risultato: molti professionisti seri vengono lasciati a casa, sostituiti con gente non sempre esattamente qualificata. E un lavoro che si dovrebbe fare in cinque, si fa in due o tre». 
Megalomania, tendenza a strafare. In gergo si dice «picchiare sul montaggio ferro». È la nuova regola dello show biz, che deve continuare e deve esagerare. «Un tempo tutto girava intorno alla musica, oggi – spiega Spagnoli che pure per Vasco ha messo su un palco alto 42 metri, record d’Europa – oggi tutto ruota intorno all’allestimento». Bisogna lasciare il mondo a bocca aperta. Il punto è che nel mondo c’è anche Reggio Calabria col suo PalaCalafiore, che magari non è proprio l’Hallenstadion di Zurigo o il Palasport parigino di Bercy. «Basta con questa gigantomania, fermiamo le produzioni ciclopiche che neanche entrano nei palasport», tuona il promoter Ruggero Pegna, dirigente nazionale di Assomusica. L’altra notte al PalaCalafiore c’erano anche dei suoi tecnici. E decine di scaff-holder. Sono gli operai specializzati nel montaggio dello scheletro del palco. Ce ne sono di esperti e meno esperti. A Francesco Pinna, lo studente universitario morto a Trieste tre mesi fa mentre costruiva il palco per il concerto di Jovanotti, facevano fare lo scaff. Ma aveva 20 anni e ancora molto da imparare.


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