Tutto iniziò con il melone

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   C’era una volta una zucca, anzi un melone, che poi non era un frutto, ma un’antica pietra arenaria modellata in dodici costole che sembrano spicchi di un melone, appunto, però sormontato da un’alabarda. La scultura sta a San Giusto e non c’è triestino che non la senta sua. Alla metà  degli anni 70, in polemica con i partiti e con gli accordi di Osimo, Manlio Cecovini, professore, fertile scrittore, nonché pontefice massimo del Grande Oriente d’Italia, scelse il Melone come simbolo del suo movimento autonomista, si presentò alle elezioni, ebbe un sacco di voti e nel 1978 divenne sindaco di Trieste.
Da qui si può far partire la storia, invero un po’ confusa e oggi ancor più ambigua delle liste civiche. Perché dopo qualche anno, in una tv privata di Taranto, AT6, si fece notare un tipo molto diverso da Cecovini. Giancarlo Cito era un geometra populista con una spiccata vocazione per le traversate a nuoto e le tele-invettive: «Ladri – gridava ai partiti – farabutti, cessi!». Anche lui, «il Noriega di Taranto», come lo designò Sandro Viola in un fantastico articolo, diventò sindaco della sua città .
Mentre a Palermo, sempre nel tempo in cui la Prima Repubblica stava per tirare le cuoia, un giovane democristiano come Leoluca Orlando sindaco lo era già , illuminato per giunta da una radiosa primavera anti-mafia. Ma agli inizi degli anni 90 abbandonò lo Scudo crociato per fondare la Rete, che nell’isola in un primo momento andò assai bene.
Poi sì, certo, gli anni passano, per cui Cecovini è morto e Cito è finito male (sebbene se ne trovi traccia nel poema Addio al Sud di Angelo Mellone, Irradiazioni); quanto a Orlando, la nostalgia l’ha spinto a riprovarci. Ma proprio la storia di queste esperienze, tanto brevi quanto incandescenti, rivela che allora non solo il declino dei partiti si andava inesorabilmente accentuando, ma che le liste civiche erano soprattutto destinate a incrociarsi con i mutamenti delle forme della politica: personalizzazione, centralità  televisiva, ideologia della società  civile o “gentismo”, ansia del nuovo o “nuovismo” che dir si voglia.
A partire dal 1993 la rivoluzione dei sindaci (Castellani a Torino, Cacciari a Venezia, Rutelli a Roma, Bassolino a Napoli, Bianco a Catania) portò diversi di loro a immaginare che si potessero sostituire le antiche appartenenze con nuove identità  cittadine, orgoglio municipale ad alto impatto comunicativo. Ci furono anche dei tentativi di ritrovarsi in un unico movimento, quel “CentoCittà ” che con sottile perfidia l’allora presidente Amato liquidò all’istante ribattezzandolo «CentoPadelle».
Ciò nondimeno, in vista del secondo mandato, alcuni di quei sindaci marcarono una specie di separazione con il partito o i partiti d’origine, peraltro ormai ridotti al lumicino, varando liste d’appoggio personali composte di figure provenienti da ambiti lontani dalla politica – anche se spesso non dal potere. A Roma quella di Rutelli fu detta “Lista Beautiful”, per via dell’implicita piacioneria dei candidati. Comunque ebbe successo. E da allora proliferarono le liste civiche personali, più o meno beautiful, vincenti o perdenti, a nome Tajani, Moratti, Illy, Soru, Galan, Veltroni, Biasotti, Marrazzo, Penati, Loiero, Pasquino, Polverini, ma il censimento è incompleto.
A complicare la faccenda c’era anche – e c’è ancora – chi è arrivato a proporre una lista civica nazionale: dagli ex girotondi a Luca di Montezemolo fino al sindaco di Bari Emiliano. E con lui ci si fermerebbe pure, senza facili ironie sui civici molluschi, ma con la più netta impressione che tra Forza Verona e Forza Alemanno, Forza Monza e Forza Brambilla c’è spazio per Forza Tutto, ma anche per forza niente.


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