Un rendez-vous all’Holiday Inn

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Festeggiare l’anniversario di una guerra che comincia non si può. Lo si commemorerà , badando a non strafare. In Rete si trova (“Sarajevo Reunion”) l’invito a un incontro fra gli “internazionali” dei media di allora: giornalisti, dentisti («almeno uno ce n’era»), cameramen, produttori, tecnici del suono e del satellite… 
Gli organizzatori tengono un tono fra il brillante e il composto. Prescrivono, a piacere, lo smoking o il giubbotto antiproiettile. Luogo dell’incontro, l’Holiday Inn, e già  ricomincia la vecchia vertenza fra chi amava l’albergo crivellato dalle granate e chi lo detestava come un acquario per giornalisti, preferendo una comune casa privata, crivellata anche lei. Ci sarà  «per la prima volta dopo allora» – un concerto di Vedran Smajlovic, il violoncellista del Quartetto d’archi di Sarajevo che suonò per 22 giorni nelle strade infilate dai cecchini l’Adagio cosiddetto di Albinoni: 22 concerti per 22 ammazzati in una fila per il pane. Donne, uomini e tanti bambini: bersaglio prediletto, allora e sempre, di guerre pubbliche e private. Smajlovic aveva trentacinque anni, dunque ne ha cinquantacinque, sarà  più facile alle lacrime, ora. Raccontarono che, mentre suonava col suo frac in mezzo alle rovine della Biblioteca moresca e le telecamere lo riprendevano, piangeva e si asciugava le lacrime, finché quelli lo avvertirono che poteva smettere, perché lo avevano ripreso abbastanza: pensavano che piangesse per loro. Questione delicata, chi fa piangere chi. 
Tutti hanno vent’anni di più, i sopravvissuti. Molti, che riuscirono ad andarsene per scampare all’assedio e poi sono tornati, conservano un sottofondo di reciproca distanza da chi scelse di restare, o non poté fare altro. Del resto, anche fuori non era così facile, e in quel paradiso dell’umor nero che fu Sarajevo, correva la storiella dei due che si incontrano proprio a metà  del famoso tunnel scavato a mano sotto l’aeroporto, uno sta scappando dalla città  assediata l’altro sta rientrando, e tutti due si dicono all’unisono: «Ma dove cazzo vai?».
Man mano che gli anni passavano, e il ricordo della prostrazione sbiadiva, i rimasti di Sarajevo si sentivano estranei alla nuova città  e alla vita che riprendeva, come si dice, i suoi diritti, e provavano una storta nostalgia per quella lunghissima stagione d’inferno in cui però le cose erano diventate essenziali e fra le persone c’era una disperata fratellanza. Perfino questo può succedere, dopo che la guerra ha fatto rimpiangere col cuore spezzato il mondo di ieri – «Com’era bella Sarajevo! Non puoi capire come fosse dolce la vita a Sarajevo!» – una pace che fa rimpiangere, sia pure per modo di dire, le strade del tempo di guerra senza il traffico d’auto e i traffici criminali…
E poi ci sono i ragazzi, quelli che non erano nati. Chissà  come si racconta una guerra e un assedio senza fine a chi non era nato. Forse non se ne ha voglia, si vuole preservarli, però una trepidazione sotterranea spinge ad avvertire che è potuto succedere, dunque può succedere ancora. Certo, vent’anni non bastano a cedere di nuovo all’illusione della città  della convivenza e della socievolezza. Ci sono ancora tutte quelle rose di mortaio sull’asfalto, un odore c’è ancora. E poi c’è la “normalità “. Jovan Divjak, l’alto ufficiale di origine serba che restò dalla parte della Sarajevo bosniaca e diventò la bestia nera dello sciovinismo serbista, l’ha spiegata bene, la normalità  di oggi, agli intervistatori dell’Osservatorio Balcani e Caucaso: «Si utilizza l’espressione “Stato di Bosnia Erzegovina”, ma di fatto questo non esiste, esiste come concetto geografico, ma nella politica, nella cultura, nell’istruzione, nella realtà  non trova riscontro. Sapete che il treno Sarajevo-Belgrado ha tre vagoni? Uno della Federazione bosniaca, uno della Republika Srpska (i serbobosniaci) e uno della Repubblica di Serbia, e i passeggeri comprano il biglietto per il “proprio” vagone, poi strada facendo si cambiano i locomotori. Questo è folle, è un’immagine chiara di questo Paese».
Divjak si è occupato con una sua associazione dell’istruzione per i ragazzi poveri di ogni nazionalità  (che vuol dire anche i rom, dettaglio tutt’altro che ovvio) e soprattutto orfani di guerra. Dice: «Oggi le nuove generazioni sono allevate nell’odio. Molto più che nel ’95». Dice: «Parliamo di Santic? Non credo che in una scuola in Republika Srpska – l'”entità ” serba di Bosnia-Erzegovina con capitale Banja Luka – trattando Santic si consideri Emina. Si sceglierà  sicuramente qualche altro tema». Aleksa Santic era un poeta di Mostar (1868-1924). Emina è la sua poesia più famosa. Lui era serbo, Emina musulmana.


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