Di nuovo on line. E niente estradizione per il suo boss

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Così è stata presentata l’azione congiunta di Fbi e polizia della Nuova Zelanda contro il boss della corporation «extraterritoriale» meglio conosciuta come Megaupload. Nei giorni scorsi la decisione di un giudice della Nuova Zelanda che ha respinto la richiesta di estradizione negli Stati Uniti del fondatore di Megaupload Kim Dotcom. L’inchiesta, sostengono i giudici, fa acqua da tutte le parti. Inoltre, le autorità  di polizia hanno commessi errori formali, fattore che nella legislazione anglosassone è una colpa maggiore del reato che la polizia vuole perseguire. Così, tutte le accuse contro Kim Dotcom potrebbero cadere una dopo l’altra, aprendo definitivamente le porte della prigione – Kim Dotcom è agli arresti domiciliari – e, cosa per l’accusato più importante, consentire di riaprire il sito chiudo d’autorità  della polizia della Nuova Zelanda. 
Per chi ha passato più di cinque minuti in Rete alla ricerca di un brano musicale o di un film da scaricare da Internet sa che quella impresa era sinonimo di «video streaming» per film da poco usciti. Si connettevano al sito milioni e milioni di utenti alla ricerca del cartoon preferito o del film ancora in programmazione nelle sale cinematografiche. Un business da centinaia di milioni di dollari, grazie alla vendita di spazi pubblicitari e, in misura minore, di abbonamenti sottoscritti per vedere, ascoltare ciò che più piaceva. Poi a un certo punto la Fbi statunitense ha deciso che il business dovesse essere interrotto, perché le major dell’industria cinematografica, e in misura minore di quella discografica, consideravano «Megaupload» un pericolo.
Così una mattina, agenti della «Federal Bureau of Investigation» assieme a poliziotti della Nuova Zelanda si sono presentati all’ingresso della villa – pacchiana, come nella migliore tradizione dei parvenue di Internet – con un mandato di arresto per Kim Dotcom, il fondatore di Megaupload. L’arresto di questo discusso hacker tedesco fu documentato just in time dai media tradizionali. In Rete l’operazione repressiva ha avuto commenti meno entusiasti di quello filtrato da televisioni, quotidiani e radio. Il gruppo «Anonymous», senza attendere più di tanto, disse che l’operazione era il classico intervento a favore delle multinazionali dell’intrattenimento, annunciando proteste telematiche – che poi ci furono – contro i custodi dell’ordine costituito telematico. Altri «naviganti» della Rete puntarono l’indice contro chi «sigillava» un sito che non faceva del male a nessuno. La Fbi si è data molto da fare per screditare la figura di Kim Dotcom. Hacker amante del lusso – ostenta automobili costosissime e un tenore di vita che ha molto poco a che fare con la critica ai padroni dei contenuti -, preferiva fare profitti invece che restare fedele all’«hacking sociale», attitudine e «scena» ribelle in cui aveva mosso i primi passi.
Il pronunciamento di un giudice che ha smontato, per irregolarità  nell’operato delle forze di polizia, il teorema che ha portato Megaupload alla chiusura avrà  sicuramente conseguenze. In primo luogo, la tanta declamata collaborazione tra polizie di diversi stati nazionali. Il Federal Bureau of Intestigation ne esce malissimo. È infatti trattato dalla magistratura newzelandese come un principiante alle prime armi, mentre le forze di polizia locali sono censurate come «mercenari» che rispondevano a committenze non istituzionali.
Chi invece ne esce bene è proprio Kim Dotcom. Se tutto procede come legge impone, potrebbe riaprire il sito nei prossimi giorni. Anche se dovrà  constatare che nel frattempo il vuoto creato dalla chiusura da Megaupload è stato riempito da altri. Chi sta in Rete, infatti, ha scelto altri siti Internet per potersi vedere, in santa pace, il film da poco uscito. In fondo, in Rete, bastano pochi click del mouse per spostare in luoghi dove la proprietà  intellettuale non ha, per fortuna, nessun valore legale.


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