Gli occhi lucidi e la teoria del complotto

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BERGAMO — Barbara ha resistito per quasi 400 chilometri. I leghisti di Monghidoro che viaggiavano in pullman con lei le hanno provate tutte per convincerla. Adesso che sono arrivati va presa una decisione, e l’ultima carta da giocare è quella della compassione. «Dai, in fondo è un vecchio» le dice il segretario cittadino. Allora, solo allora, Barbara getta lo striscione «Bossi vergognati» nell’ultimo cestino disponibile prima dell’ingresso.
C’è un’aria strana, mai respirata prima, nell’enorme padiglione del Palazzo della fiera, tetto metallico basso e pareti disadorne, un luogo freddo che fatica a riempirsi e accentua così una sensazione di scollamento. Sembra di assistere alla gigantesca riunione di una corrente, forse maggioritaria ma pur sempre tale. Più la sala si riempie, più si capisce come l’ecumenismo della vigilia fosse solo facciata, diplomazia di partito. Il primo coro «Bossi, Bossi» sale piano e resta a mezz’aria, con il contrappunto di fischi neppure troppo isolati. La risposta è il «Maroni, Maroni» che invece arriva al tetto, assume toni e decibel da stadio. Il secondo tentativo parte al buio, quando le luci si abbassano per il filmato che introduce l’ascesa sul palco del fondatore, visibilmente emozionato, che dà  le spalle alla folla per voltarsi a guardare le immagini dei giorni felici e lontani di Pontida sul megaschermo. Anche questa volta le voci bossiane vengono oscurate dall’ovazione a Maroni. Quando l’ex ministro dell’Interno prende la parola e parte il coro «Bossi, Bossi», viene subito travolto dai fischi.
Non è più casa sua. Non questo stanzone enorme e gelido, almeno. Il leader appare imbarazzato, con le lacrime agli occhi. Durante l’ovazione maroniana appoggia una mano sulla spalla di Bobo, ma è un gesto esitante, quasi timido. Una richiesta d’aiuto più che un’investitura. La partita è impari, quasi crudele, ma riflette il clima di questa giornata dell’orgoglio padano. La Lega sta cambiando pelle, costretta dagli eventi. Non ci sono più certezze e miti, neppure quello fondante, l’intangibilità  del Capo, al quale viene riservato tanto affetto, ma anche un posto nel Pantheon.
«Avanti con Maroni, Tosi, Zaia». Sul davanti della pettorina di Massimo Donati, imprenditore edile, sezione Milano Darsena, non c’è il nome di Bossi. Sul retro si legge, in piccolo, «Umberto presidente onorario». Quasi una nota a margine. «Lui era la Lega, ma ora siamo cambiati» dice. Poco distante c’è Severino alla guida dei «Bossi-Bobo boys» della Val Camonica, che pronuncia quella che fino a pochi giorni fa sarebbe stata un’eresia: «La scelta sul ricambio è fatta. Non rinnegheremo mai Bossi, e lui forse potrà  ancora dare qualcosa, anche se pare molto provato».
Maroni sul leggìo sembra un generale che detta condizioni. L’omaggio a Bossi è forte — il vecchio leader piange ancora — ma non può nascondere la sensazione malinconica di assistere a un crepuscolo personale. Eppure è proprio il contrasto di stili tra nuovo e vecchio che lascia intravedere le difficoltà  future di una nuova Lega.
Sono due linee diverse. Maroni imbraccia simbolicamente la scopa, chiede epurazioni e purezza, «libertà  e pulizia». Gioca in casa, ma non chiude la partita. Bossi è stanco, affaticato. «Non è vero che Maroni sia un traditore — dice —. Maroni non è Macbeth». Parla di complotto per eliminare la Lega e incassa la prima salva di fischi. Propone un nuovo giuramento per l’unità  della Lega, e le reazioni sono tiepide. Ma da qualche parte, dentro di lui, c’è ancora la capacità  di trascinare la sua gente, una capacità  di sintonia unica nella Lega di oggi. «Quando il Padreterno ci chiederà  quante volte siamo stati capaci di ripartire…». Su alcuni passaggi la gente delira come nelle vecchie Pontida, dimentica gli sforzi fatti per intercettare quella voce incerta.
L’incantesimo dura poco, il tempo di vedere la messa in scena di una specie di Re Lear padano. Il Capo è costretto a denunciare i suoi familiari, uno per uno. Si assume la responsabilità  per la scelta dello sciagurato Belsito, incassa l’umiliazione di una bordata di fischi destinata prima all’ex tesoriere e poi, soprattutto, ai suoi figli. «Sono io che li ho rovinati, dovevo mandarli via, a studiare fuori, come ha fatto Berlusconi». Ancora fischi, sempre più crudeli. «Mi piange il cuore per loro, queste sono cose che segnano la vita di una persona».
L’unica autodifesa è sul cerchio magico, ultimo diaframma che lo separa dalla presa di distanza dalla moglie Manuela. «Non è mai esistito, ve lo giuro». E sembra quasi un’invocazione a essere creduto. Bobo gli alza il braccio, con gesto magnanimo. La gente sfolla prima che Bossi finisca di parlare. «Maroni, Maroni» l’ultimo coro è assordante. E lo striscione «Grazie Umberto» che campeggia sul palco sembra un saluto.


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Torbido. Ai tempi della Prima Repubblica il clima di questi giorni lo avremmo definito sicuramente così. Torbidi furono quei giorni del ’ 64 (anche allora era luglio) in cui Pietro Nenni, e non solo lui, sentì nitido un «tintinnar di sciabole» , e si risolse— «cari compagni, non c’è altra strada» — a rientrare nella «stanza dei bottoni» del governo, mettendo in conto che i bottoni cari ai socialisti non li avrebbe potuti premere mai. Torbidi furono, per definizione, gli anni della «strategia della tensione» , quando persino al prudentissimo Arnaldo Forlani toccò rendere noto (era il 1972) un attacco eversivo, interno ed esterno, almeno a suo dire senza precedenti.

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