La politica senza parole

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Ma che fine hanno fatto i soggetti della politica? Non parlo solo dei partiti, sempre più preda di irrefrenabili pulsioni autodissolutive, ma anche di quelli più blasonati e classici. Le classi, svuotate e stravolte dal passaggio repentino al paradigma postfordista; il popolo, sempre meno espressivo di un idem sentire; lo Stato, formalmente ancora in piedi, ma mortificato dalle dinamiche di globalizzazione; e infine gli stessi individui, intesi come atomi logici autonomi e razionali, cui la filosofia politica moderna aveva assegnato il compito di governarsi attraverso i meccanismi del contratto sociale e della rappresentanza. In quale faglia epocale, in quale buco nero della storia, tutto questo mondo è scivolato in una forma che sembra non aver lasciare sul campo che residui inanimati, profili incerti ed appannati di un passato lontano?
Da domande di questo tipo nascono i due fascicoli (3/2011 e 1/2012) della rivista Filosofia politica, diretta per il Mulino da Carlo Galli, curati rispettivamente da Geminello Preterossi e Laura Bazzicalupo, appunto intorno alla questione del soggetto. Come sempre avviene in questi casi, ferma restando la crisi dei soggetti politici tradizionali, le risposte variano negli accenti e anche nel contenuto. A letture più rivolte ad un recupero, sia pure rimodulato nei suoi termini, del lessico politico moderno, rispondono ipotesi interpretative più radicali, che cercano di oltrepassare una terminologia, istituzionale e concettuale, non più utilizzabile. Ad essere mutate, secondo questa impostazione più netta, non sono soltanto le condizioni contestuali determinate da eventi, pure decisivi, come il “secondo” ’89, ma quello che possiamo definire il regime di senso, l’orizzonte complessivo, del nostro tempo, segnato dalla svolta biopolitica e dal passaggio dall’idea classica di governo alla cosiddetta governance.
Come argomenta Laura Bazzicalupo nella sua introduzione, ciò che oggi si registra è il passaggio da un atteggiamento normativo ed escludente, tipico dei dispositivi moderni, ad una strategia includente e differenziante che sposta la gestione degli interessi dalla sfera politica a quella sociale, vale a dire alle contingenze quotidiane, relative alla salute e all’ambiente, al lavoro e al tempo libero. Naturalmente questa rotazione senza precedenti dell’asse del governo – caratteristica di quei regimi biopolitici postliberali che chiamiamo ancora democrazie – ha un effetto ambivalente. Mentre da un lato allenta i vincoli che saldavano l’ordine politico moderno a precisi discrimini selettivi, in conformità  con una concezione chiusa e riduttiva di cittadinanza, dall’altro apre uno spazio a nuovi soggetti forti di carattere impolitico – economici, mediatici, tecnici – capaci di occuparlo. In questo modo si determina la paradossale circostanza che l’apparente liberazione di una soggettività  sempre più autonoma dall’ordine repressivo della Legge finisce per coincidere con il suo assoggettamento a poteri e saperi che orientano i suoi bisogni, impulsi, desideri in direzione di determinati interessi.
E allora? Come uscire da questo circolo vizioso? Come porre la questione, comunque ineludibile, del soggetto politico, dopo la svolta “governamentale” che rende impossibile ogni ritorno ai vecchi soggetti individuali e collettivi? Come riempire lo spazio vuoto lasciato dai partiti, per evitare che diventi preda di scorrerie improduttive e disgreganti? Personalmente mi terrei a tre indicazioni di massima. Innanzitutto quella di spingere a fondo la decostruzione di categorie ormai compromesse, quale quella di persona giuridica, come fa nel suo testo Enrica Lisciani Petrini, provando a definire una nozione più aperta e trasversale di soggetto. Su questo punto è necessario sfidare qualche luogo comune: non è possibile continuare ad adoperare, in maniera acritica, termini profondamente segnati, fin nella loro genesi, da una tendenza a suddividere gli esseri umani in categorie di diverso valore. In secondo luogo è necessario allargare l’orizzonte dell’analisi al mondo non occidentale, come fanno Giuliani, Chignola e Mezzadra, attivando uno sguardo ad ampio raggio sul mondo postcoloniale. E ciò non certo per confondere problemi e semantiche tra loro irriducibili, ma, al contrario, per marcare ancora meglio distanze e differenze, in un quadro tuttavia unitario qual è quello del mondo globale. Infine è necessario sfondare il lessico, troppo ristretto, della scienza e della filosofia politica, aprendolo al contributo di altri linguaggi, Tra i quali, in particolare, quello della psicoanalisi, come fa Ida Dominijanni.
Quest’ultima compie una mossa ancora più rilevante, da un lato arretrando agli inizi degli anni Settanta, e non alla fine degli Ottanta, quella svolta che Pasolini avrebbe definito antropologica. E’ d’allora che data l’impossibilità  di subordinare il soggetto individuale a quello collettivo, perché è d’allora che si rompono i confini tra personale e politico, con tutti gli effetti che ne derivano. A sfaldarsi non è solo il soggetto politico, ma la forma stessa della soggettività , attraversata e sfigurata, lungo tutta la sua estensione, dalla potenza del bios – dalla pressione del corpo e dal taglio della sessualità , dalla forza dell’immaginario e dalla irruzione del desiderio. E’ appunto allora – per presunzione o per ignoranza, in particolare dei nuovi linguaggi antropologici e psicoanalitici – che la politica, soprattutto di sinistra, perde la sua occasione decisiva. Non coglie la direzione che stavano imboccando i processi di soggettivazione, consegnando a una destra, in un’Italia misera e becera, la parola d’ordine del rompete le righe – godete, magari in sogno, come fanno i capi in cui vi immedesimate, purché non mettiate in dubbio il comando ultimo del mercato dove quel godimento è acquistabile tanto al chilo.
E’ appunto qui, su questa linea, insieme storica, politica e culturale, che si gioca il finale di partita per il soggetto della politica, dopo l’implosione, irreparabile, di quello moderno. Certo, diversamente da chi cerca rifugio nel flusso catodico di Facebook o di Twitter o nella insorgenza spontanea di indefinite moltitudini, penso non solo che la politica abbia bisogno di una qualche nozione di soggettività , ma che la soggettività , anche soltanto per identificarsi in quanto tale, abbia a sua volta bisogno di politica. Ciò significa che, all’interno del mondo apparentemente privo di attrito in cui da tempo viviamo, è necessario individuare nuove linee di conflitto tra progetti di società  differenti. Si tratta di tornare a pensare insieme “dentro” e “contro”. Dentro il regime governamentale – senza regredire al vecchio statuto del diritto sovrano – e dentro il mondo globalizzato. Ma contro i blocchi di denaro e di potere che ostruiscono il passaggio al benessere, o almeno alla sopravvivenza, per intere popolazioni e nuove generazioni.
Come costruire una nuova egemonia – riabilitiamo finalmente questa parola a lungo maledetta! – è il problema che in particolare la sinistra ha davanti. Si tratta di pensare il soggetto non più nella forma di un blocco compatto tenuto insieme da una stessa ideologia, ma di una rete capace di collegare necessità  e richieste che vengono da segmenti sociali anche diversi. Ciò che si è a lungo chiamato partito deve diventare il collettore che porta alla rappresentanza questo mosaico complesso di soggettività  sociale. Certo, non sarà  facile. Ma, come si dice, hic Rodhus…


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