La promessa di «rupture» ha rotto anche il presidente

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Il principale nemico di Nicolas Sarkozy è Sarkozy Nicolas. Il presidente-candidato, anche se fa finta di credere ancora nella possibilità  di una vittoria, se afferma arrogante di «sentire l’onda che sale», ha fatto di tutto per far dimenticare il bilancio dei suoi cinque anni di presidenza. 
Nel 2007, in effetti, aveva conquistato il potere su un’ondata di entusiasmo sollevata dalla sua promessa di «rottura» con il tran tran deludente del predecessore Jacques Chirac, che aveva governato immobile in un mondo in piena mutazione. Aveva fatto credere alle classi medie che era tornata l’epoca del «valore del lavoro» e aveva convinto che avrebbe realizzato il sogno piccolo borghese del «lavorare di più per guadagnare di più». Aveva promesso non solo che sarebbe stato il «presidente del popolo» ma che con lui la Repubblica sarebbe stata «irreprensibile». Aveva voluto presentarsi come un presidente non partigiano, che sceglieva «i migliori» per governare, anche nel campo avverso socialista. 
Cinque anni dopo, tutto questo è un campo di rovine. Ora, oltre ad attaccare l’avversario cercando di screditarlo (Hollande) e di sentirsi circondato («sono nove contro uno»), la principale carta che gli è rimasta in mano è quella di promettere «protezione» contro la globalizzazione che fa paura e contro gli assalti della finanza in agguato che si scatenerà , a suo dire, se vince la sinistra. Ma è con Sarkozy che la Francia ha perso il rating AAA. 
I francesi oggi lavorano meno di cinque anni fa (5,3 milioni di persone iscritte al Pà´le Emploi, la struttura degli uffici di collocamento che Sarkozy ha trasformato in un’impresa-rullo compressore per smascherare «i profittatori»). E guadagnano anche di meno, perché per i più la pressione fiscale è aumentata e il precariato si è diffuso. Soltanto la scuola pubblica ha perso 60mila insegnanti. E nella pubblica amministrazione chi va in pensione è sostituito solo al 50%. Il «presidente del popolo», che aveva festeggiato la vittoria del 2007 al Fouquet’s, è stato in realtà  soprattutto il presidente dei ricchi in generale e dei rentiers in particolare. La patrimoniale (Isf) è stata alleggerita, i vantaggi fiscali sono stati aumentati per le classi più abbienti. Per la maggioranza, malgrado manifestazioni-fiume, c’è stata la dolorosa riforma delle pensioni, la più dura d’Europa. Sarkozy afferma che la sinistra al potere è sinonimo di “sprechi”, ma il debito pubblico in cinque anni è aumentato di 600 miliardi di euro e la spesa pubblica è salita al 56% del Pil. E questo non è solo dovuto alla crisi, ha spiegato la Corte dei conti. La Repubblica «irreprensibile» è oggi preda di sospetti, denunce e inchieste giudiziarie: un ministro di Sarkozy, Eric Woerth, ha dovuto dimettersi dopo essere stato incriminato per «traffico di influenza» (corruzione). Ci sono inchieste in corso sui conti della campagna di Sarkozy nel 2007. E sospetti di bustarelle ricevute dalla miliardaria Liliane Bettencourt (padrona de L’Oréal), i conflitti di interesse sono stati numerosi e non ancora tutti chiariti. 
La presidenza Sarkozy lascia un ricordo molto negativo in tutte le classi popolari e in particolare nelle periferie urbane in particolare. Sarkozy, che non ha mai smesso di denunciare «il comunitarismo», nei fatti ha messo le diverse categorie di francesi una contro l’altra. I giovani delle banlieue sono stati additati con sospetto, la paura dell’islam è stata fomentata. Per non parlare dei Rom, perseguitati al punto che c’è stato persino uno scontro con la Commissione di Bruxelles. 
Eppure almeno all’inizio, con l’«apertura» a personalità  della sinistra (Martin Hirsch, Bernard Kouchner) o della «diversità » (Rachida Dati, Rama Yade, Fadela Amara) Sarkozy aveva dato un’immagine di modernità . Presto finita, tanto più con una campagna elettorale tutta a caccia di voti nel bacino del Fronte nazionale. Aveva aperto anche all’ecologia, ma il Grenelle dell’environnement (grande dibattito sull’ambiente) si è risolto in nulla e con la conferma della scelta nucleare. Resta la politica estera, «dominio riservato» del presidente: in Europa, l’asse conservatore con Angela Merkel, ha favorito l’austerità  e il ritorno in forza dello stato-nazione, a livello internazionale la leadership nella guerra in Libia ha fatto crescere l’illusione della grandeur, che già  il rientro nella Nato e le difficoltà  in Africa avevano però mostrato come residuo del passato.


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