L’autogol dei moralizzatori

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L’intenzione era recuperare credito alla politica, il risultato è più o meno opposto, anche per l’approssimazione con la quale Pdl, Pd e Udc si sono mossi. Cercando di impalcarsi a moralizzatori, senza rinunciare ai fondi in arrivo. La scoperta che la riforma si sarebbe applicata solo nel 2014 ha seppellito anche le migliori intenzioni. In più la strada veloce che doveva garantire l’approvazione nel giro di venti giorni – agganciando la legge al decreto fiscale – si è rivelata impraticabile (previsione facile facile). L’alternativa, quella cioè di saltare il dibattito d’aula e approvare la riforma in sede legislativa in commissione, è ancora incertamente in piedi, ma crollerà  presto. Autogol migliore i professionisti della politica non potevano segnare.
L’intesa tra i tre partiti della maggioranza è quella di mercoledì sera. In sintesi prevede che i bilanci dei partiti debbano essere sottoposti al doppio controllo di una società  di revisione e poi di una nuova Commissione per la trasparenza formata dai presidenti di Corte dei Conti, Corte di Cassazione e Consiglio di Stato. Sono previste sanzioni fino al triplo delle irregolarità  commesse. È introdotta una soglia di 5mila euro per le donazioni anonime. È previsto l’obbligo di investire le eccedenze dei rimborsi elettorali esclusivamente in titoli di stato. Nulla cambia per i rimborsi in scadenza, 100milioni in pagamento a luglio. Bersani aveva annunciato una «sospensione» di quell’esborso, ma è rimasto un annuncio. I problemi sono iniziati quando la maggioranza ha provato a far passare queste nuove regole come emendamento al decreto fiscale che è all’esame della commissione finanze della camera. Al relatore del Pdl Gianfranco Conte è toccato firmarlo, ma anche, come presidente della commissione, far notare che le nuove norme erano estranee al contenuto del decreto legge. Dopo le recenti critiche della Corte Costituzionale e del presidente della Repubblica ai decreti cosiddetti omnibus, lo stop è stato inevitabile. A pronunciarlo il presidente Fini, che però non ha fatto altro che ripetere le osservazioni del medesimo Conte. Napolitano ha espresso soddisfazione, ma per la maggioranza è stato un pasticcio.
Allora, lucidamente anticipata dal senatore Gasparri, l’alternativa è apparsa davanti agli occhi di Alfano, Bersani e Casini. I tre hanno tosto firmato un progetto di legge per il quale intendono chiedere la sede legislativa. La commissione affari costituzionali che da qualche giorno aveva tirato fuori dai cassetti le vecchie proposte di legge di applicazione dell’articolo 49 della Costituzione, quello dedicato ai partiti, attende notizie. Il problema è che il regolamento della camera prevede la possibilità  che una legge venga approvata direttamente in commissione per «questioni che non hanno speciale rilevanza» oppure «che rivestono particolare urgenza» solo se 1/5 del componenti la commissione o 1/10 dell’assemblea non si oppone. In commissione i contrari dovrebbero essere 9 ma il conto al momento arriva massimo a 8: i 5 della Lega, il radicale Turco e, con qualche dubbio perché non vogliono passare come difensori dello status quo, i 2 dell’Idv. Manca un dissidente del Pd, manca il gesto dei due di Futuro e libertà  che pure stanno tuonando contro la «riformicchia». I problemi però sorgerebbero ugualmente in aula, visto che è facile arrivare a quota 63 contrari semplicemente sommando i 59 leghisti e i 6 radicali.
Quindi nessuna procedura d’urgenza. E allora potrebbero prendere quota quelli che, come i radicali o il Pd Vassallo, sostengono che è piuttosto urgente occuparsi della riforma organica del sistema dei partiti, dando attuazione all’articolo 49. In commissione ci sono diversi progetti di legge e ancora non c’è un testo base. Colpa delle distanze tra i partiti sulle regole – il Pd vuole le primarie, l’Udc le esclude, il Pdl non vuole che vengano fissate stringenti procedure democratiche interne – e anche sull’entità  dei rimborsi elettorali futuri. In più, a tenere bloccati i commissari, è il caso del relatore del provvedimento, lo scajoliano Andrea Orsini, che diserta regolarmente i lavori. Pare che nemmeno il presidente della commissione Bruno sia riuscito a trovarlo. E così ha promesso che martedì prossimo lo sostituirà , per cercare di consegnare entro maggio all’aula un testo di riforma. Prima però bisognerà  aspettare l’esito del tentativo di Alfano, Bersani e Casini, vedere se sopravviverà  agli ostacoli tecnici e al malcontento crescente nella stessa maggioranza. Fare presto non significa fare bene. Ma non fare niente imbarazzerebbe assai i partiti quando, a luglio, dovrebbero passare all’incasso.


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