Nemesi Italiana

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Facciamo un lungo salto indietro, al giorno della resa del nostro esercito, l’8 settembre 1943. È un episodio accaduto nel Montenegro, alla 37a Compagnia del battaglione «Intra» (divisione «Taurinense» alpina), comandata dal capitano Pietro Zavattaro Ardizzi. La compagnia era impegnata da parecchi giorni in un’operazione di rastrellamento in alta montagna quando, la mattina dell’8 settembre, attaccò il solitario villaggio di Crna Gora, strenuamente difeso dai pochi abitanti. La notte precedente, in tutti i casolari investiti dal «rastrellamento», s’erano levati i fuochi degli incendi rituali: bruciarono capanne e pagliai, perché le case di pietra erano state già  distrutte nel maggio precedente. Sempre dai nostri soldati, divisione «Ferrara», che compirono una delle più spaventose stragi e innumerevoli atti di ferocia. PARTIGIANI SLOVENI PESTATI MENTRE VENGONO PORTATI ALL’ESECUZIONE CAPITALE DA SOLDATI ITALIANI La strage di Zupa Li racconta lo storico montenegrino Radislav Marojevi nel volume «Z upa Niksi Ka » (La Zupa di Niksi, Niksi, 1985), presentando un’abbondante documentazione. Dunque, nel quadro delle operazioni del maggio 1943, alcuni reparti della divisione «Ferrara» e un battaglione tedesco di SS penetrarono in Valle Zupa di Niksi il 28 maggio, rimanendovi anche il 29 senza incontrare un solo partigiano. Ma in quei due giorni avvenne l’inferno. Le poche famiglie che, disubbidendo alle direttive dei comandi partigiani in ritirata, avevano voluto restare, in attesa fiduciosa del ritorno delle truppe italiane, furono vittime di violenze inenarrabili: uomini fucilati, donne ed anziani gettati vivi nel fuco delle loro case date alle fiamme, fanciulle violentate e poi massacrate. Il bilancio fu di 90 persone uccise, 680 case incendiate, chiese saccheggiate. I soldati commisero tali e tanti atti di ferocia che tuttora nei villaggi della Zupa, per significare una strage, si usa dire «il Ventinove maggio». All’alba dell’8 settembre, dunque, gli italiani erano tornati, attaccando col battaglione «Intra»: ad eccezione di poche case, tutto fu distrutto dalle fiamme. L’azione avrebbe dovuto continuare nelle giornate successive e concludersi con la «totale distruzione dei partigiani», allo scopo erano state già  rese note ai comandanti di reparti le disposizioni per l’indomani. In serata, invece, arrivò la notizia dell’armistizio. Così non ci furono altri rastrellamenti: chi avrebbe dovuto continuare a rastrellare i partigiani e a bruciare i villaggi dei «comunisti» venne a trovarsi da quel giorno di fronte ai tedeschi. «Sei il mio terzo figlio» Quanto al capitano Zavattaro Ardizzi, lo ritroveremo nel maggio 1944 al comando di un reparto partigiano della divisione «Garibaldi» nel villaggio di Crna Gora, quello stesso da lui attaccato e fatto bruciare all’inizio di settembre 1943. Lui e i suoi soldati non più alleati dei tedeschi e dei cetnici, ma partigiani di Tito, braccati dai tedeschi e dai cetnici, cercavano di uscire dalla morsa nemica insieme ai partigiani jugoslavi. Leggiamo una rievocazione dello stesso Zavattaro Ardizzi scritta nel maggio 1977, esattamente un mese prima di morire (col grado di generale d’armata). «Con il tenente Simonetta raggiungo all’imbrunire del 14 maggio il piccolo villaggio di Crna Gora sulla mulattiera che da Trsa porta a Zabljak attraverso il passo di Stolac. Siamo sfiniti e cerchiamo ricovero nelle case. Gli abitanti non vogliono ospitarci perché comprendono che siamo convalescenti di tifo petecchiale ed hanno terrore del contagio. Leghiamo i cavalli allo steccato che circonda lo spiazza della chiesetta ortodossa e, dopo aver tolto agli animali le coperte che ci servivano da sella, ci stendiamo sul sagrato della chiesa coprendoci con quelle. Intorno il terreno è coperto da chiazze di neve, il sole è ormai scomparso e comincia a far freddo. Crna Gora è sui 1500 metri di altitudine. Dopo poco che sono disteso, mi «sento» fissare: alzo gli occhi e mi trovo circondato da una decina di uomini. Dico loro che quella notte probabilmente moriremo per il gelo in quanto «loro» non ci hanno accolti, sebbene fossimo combattenti per la libertà  della loro Patria. Uno degli uomini si china su di me e mi solleva, dicendomi di seguirlo in casa sua. Quando ci troviamo nella piccola casetta, seduti intorno al fuoco, circondati dagli anziani del villaggio che vogliono dagli stranieri notizie, i padroni di casa ci offrono latte caldo. Ad un tratto la moglie del nostro ospite parla sottovoce al marito e questi mi guarda intensamente. Improvvisamente mi apostrofa: Sei tu il capitano che nella scorsa estate comandava gli alpini che hanno attaccato questo villaggio? Era vero, quel capitano ero io, allora in guerra contro i partigiani che appunto erano della zona (…). Replico: Sì, ero io, allora combattevo contro di voi, oggi lotto con voi per la libertà  della vostra terra perché così agevolo la libertà  della mia. L’uomo tacque pensieroso, poi fra il silenzio di tutti, dice: Quel giorno, capitano, i tuoi uomini hanno ucciso i miei due figli. Io e questa donna siamo rimasti soli. Tu ora combatti per la libertà  del mio paese, se il nostro terzo figlio: questa è casa tua»


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