“Uniti e forti, noi cambiammo l’Italia il sindacato diviso oggi obbedisce ai partiti”

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L’operazione del governo sul mercato del lavoro, «è un aggiustamento, sono tagli a stipendi e diritti i cui effetti al momento non siamo in grado di valutare. Certamente la novità  di questa storia è che i partiti hanno finito per sostituirsi ai sindacati nella contrattazione». L’ex leader della Cisl, Pierre Carniti, 76 anni, uno dei sindacalisti che hanno fatto la storia d’Italia, è scettico: «Il fatto è che siamo arrivati a questo punto perché il sindacato è debole e diviso».
Carniti, come giudica la riforma del mercato del lavoro?
«Mettiamoci d’accordo sul linguaggio. Ai miei tempi la riforma era una modifica radicale e graduale della società . Era un termine in contrapposizione a “rivoluzione”. Quella di oggi non è una riforma».
Come la definirebbe?
«Sono interventi, tagli, aggiustamenti. Vedo troppa enfasi, si parla di svolta storica. Non esageriamo».
Non crede che possa dare una scossa all’occupazione e agli investimenti?
«Mah. Posso sbagliarmi, ma non immagino che da domani ci sia la fila di imprenditori stranieri alla frontiera di Chiasso che premono per venire a investire in Italia».
Che cosa non la convince?
«Il fatto che così non si riduce la disoccupazione giovanile, il primo e più grave problema».
Non crede che la manovra sui contratti precari sia risolutiva?
«Vedo che il solo fatto di aver allungato l’età  pensionabile ha bloccato 100 mila posti di lavoro per i giovani. Una volta compiuto quello che io considero un errore, il resto è venuto di conseguenza e ci si è avvitati per settimane sulla questione dell’articolo 18».
La soddisfa l’ultima versione della riforma sull’articolo 18?
«Un sindacalista prima studia i testi e poi si esprime. Non parla per sentito dire e io su questo taccio. Dico solo che abbiamo imbastito un torneo molto scenografico su una questione che rischiava di diminuire dei diritti senza offrire grandi vantaggi».
Lei ricorda altre svolte altrettanto «scenografiche» o comunque epocali?
«Oh, certo. Ce ne sono state diverse. E anche buffe. Nel 1973, all’epoca delle prima crisi del petrolio, sembrava epocale l’abolizione dei alcune festività  per far fronte alla crisi dei conti pubblici. Tagliammo cinque festività , passammo da 17 a 12. Anche lì discussioni a non finire, mediazioni, polemiche. Quel taglio era in realtà  un pannicello caldo. Al repulisti sopravvisse, chissà  perché, la Befana».
Che infatti abbiamo ancor oggi. Perché fu un pannicello caldo?
«Perché tre anni dopo, di fronte al secondo shock petrolifero, non bastò. Il governo Andreotti fu costretto a chiedere un prestito da 500 milioni di lire al Fondo monetario. Solo che il Fondo non si fidava e voleva, in calce alla lettera d’intenti italiana, la firma non solo del governo ma, pensi, anche dei sindacati. Il ministro del Tesoro, Gaetano Stammati, aveva l’aereo che partiva a mezzanotte per l’America e noi segretari dei tre sindacati lo costringemmo a ritardare di un’ora perché cambiammo radicalmente il testo».
Una delle svolte epocali fu la riduzione della Scala mobile. Era l’84. Lei come la ricorda?
«Dovevamo trovare il modo di calmierare l’inflazione. In Italia nel 1981 era arrivata al 21 per cento. Rischiava di mangiarsi non solo gli stipendi ma la democrazia. Quando l’ipotesi di riduzione era stata messa a punto, scoppiò la polemica».
La prima grande rottura tra i sindacati?
«Direi soprattutto la rottura di Cisl e Uil con il Pci. Berlinguer aveva scelto quel terreno per dare battaglia contro Craxi».
Berlinguer e non Lama?
«Lama era una persona profondamente unitaria. Il Pci lo spinse ad andare a firmare per il referendum contro la riduzione della Scala mobile con un codazzo di telecamere. Lo vidi molto imbarazzato. Poche ore prima del comizio in cui la Cgil rompeva con noi, mi fece avere a casa il testo del discorso».
Lei non parlò mai con Berlinguer in quei mesi?
«Ero amico di Antonio Tatò e ci invitò ambedue a casa sua. Il segretario del Pci mi espose una teoria che trovai singolare. Disse che, per un patto non scritto, alla maggioranza spettavano le decisioni sulla politica estera mentre quelle di politica interna e sociale andavano concordate con l’opposizione. Si disse dunque molto stupito che avessimo deciso sulla Scala mobile senza consultare il Pci».
Lei che cosa rispose?
«Che se si fosse iscritto alla Cisl, lo avrei consultato certamente».
Quella fu la prima rottura tra i sindacati. Non si sente un po’ responsabile per aver dato inizio a una lunga storia?
«Erano tempi molto diversi. Io e Lama, anche da pensionati siamo rimasti amici. Ho l’impressione che i rapporti personali tra i leader attuali dei sindacati siano molto diversi, per usare un eufemismo».
Questo come pesa nelle trattative con il governo?
«Pesa perché indebolisce molto i sindacati. Credo che prossimamente arriveranno delegazioni di studenti dall’estero a studiare lo strano caso di un Paese in cui la trattativa sul mercato dei lavoro la fanno i partiti che poi comunicano l’esito ai sindacati».
Che cosa c’è di strano?
«A ciascuno il suo mestiere, per favore. Vent’anni fa ho dipinto i muri di casa: ho sporcato dappertutto e ci ho messo una settimana. Oggi ho chiamato un imbianchino: ci ha messo la metà  del tempo e ha lasciato tutto pulito».
C’è qualcuno che deve ancora imparare il mestiere?
«Ha mai sentito parlare degli esodati, che io chiamo esondati?».


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