Tra promesse e dolori certi

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Un documento previsionale e programmatico – per natura – presenta il rischio di prendere lucciole per lanterne, indicando obiettivi e risultati che in genere vengono facilmente smentiti dai fatti. Stavolta ci sono dei «tecnici» in cabina di regia e ci si aspetterebbe un bel po’ di rigore in più.
Il rigore c’è, ma solo sul versante degli strumenti usati per ridurre la spesa pubblica e soprattutto la sua componente sociale (come abbiamo verificato grazie alla «riforma delle pensioni»). Per il resto si immagina, si spera, si esorta. E non si investe un euro.
Il Def 2012 (Documento di economia e finanza, presentato ieri) ha lo sguardo allungato sulla fine decennio, per il quale promette molte cose; mentre sul presente e l’immediato futuro garantisce più sangue che lacrime. Un po’ come il paradiso dopo l’inferno sulla terra…
La premessa di Corrado Passera, ministro dello sviluppo economico e frontman della conferenza stampa, è fin troppo semplice: la crescita dovrà  essere possibile attraverso misure «a costo zero», perché in cassa lo Stato non ha soldi da investire (i 22 miliardi per le infrastrutture costituiscono un sblocco di risorse già  stanziate). E quindi «non esistono né singole misure, né singole idee, né singole ‘ideone’ che possano risolvere il problema della crescita. Bisogna lavorare con determinazione e pazienza, ma anche con umiltà , su tutti i motori che fanno la crescita. L’Agenda per la ripresa economica e la crescita è fatta di decine di programmi». 
Il senso è chiaro: le «riforme» fatte (pensioni e liberalizzazioni), in cantiere (mercato del lavoro) o in via di preparazione (quella fiscale, fondamentalmente) serviranno a far muovere l’agognata crescita. O almeno dovrebbero. Qui l’ottimismo propagandato in altre occasioni è stato molto ridimensionato: dall’insieme di queste «riforme epocali», infatti, il governo stima possa venire un contributo pari appena al 2,4% del Pil. Tenetevi forte: «nel 2020». 
Nell’immediato, come si diceva, si proverà  a non affogare. Il Pil per quest’anno dovrebbe diminuire dell’1.2%, con una revisione drastica delle cifre dichiarate in dicembre (-0,4). Ed è una stima molto più ottimistica di quelle Ocse (-2,2), Fmi (-1,9), Bankitalia (1,5), Commissione europea (-1,3). Un’inversione di tendenza è attesa soltanto per la fine del 2013, che si spera possa portare un «crescita» appena dello 0,5%. Questo, del resto, è l’orizzonte massimo cui può spingersi una previsione prima di entrare nel campo della speculazione metafisica. Basti dire che l’Fmi prevede invece ancora recessione per l’anno prossimo, sebbene un po’ meno grave (-0,3).
In questo scenario gelido, che sconta una riduzione dello 0,6% dei lavoratori attivi e un tasso di disoccupazione atteso al 9,3, Mario Monti sceglie comunque di andare a tappe forzate verso il «pareggio di bilancio». Già  nel 2013, visto anche che «ormai ce l’abbiamo in Costituzione» da appena 24 ore. Per riuscirci, verrà  aggredito il deficit con una riduzione del 3,2%, in modo da arrivare all’1,7 per il 2012 e toccare il «quasi» pareggio nell’anno successivo. L’obiettivo è ambizioso perché dipende – al denominatore – dall’andamento del Pil: se le previsioni si riveleranno troppo ottimistiche (insomma, se avrà  avuto ragione l’Fmi) salterà .
L’assurdo arriva però con la stima del debito pubblico, che continuerà  a salire anche nel 2012, toccando il record del 123,4% rispetto al Pil. Come mai? Sono gli «impegni europei», che costringono l’Italia a versare 29,5 miliardi come quota di «aiuti» alla Grecia nel fondo Efsf; ad aumentare la quota per costituzione dell’organismo permanente Esm (5,6 miliardi). Ecc.
Le speranze per il futuro si concentrano dunque su un’ulteriore riduzione dello spread e quindi della spesa per interessi sul debito; che per il momento però sale (dal 5,3 al 5,8 del Pil). Ma soprattutto viene richiesta una pressione fiscale in aumento: l’anno scorso era arrivata al 42,5% del Pil, ma nel 2012 salirà  al 45,1 e continuerà  così almeno fino al 2014 (45,3). Sempre che il Pil tenga, naturalmente…
L’altra voce «virtuosa» è come sempre la «riduzione della spesa pubblica», che si affida ora alla «spending review», ovvero all’analisi puntuale delle singole voci, abbandonando il criterio tremontiano dei «tagli lineari»; e alla «gestione efficiente del patrimonio pubblico» (un’altra ondata di privatizzazioni). Nonostante questo – per effetto di impegni europei e del servizio sul debito – crescerà  ancora un po’. Non certo per colpa dei poveri dipendenti pubblici, visto che la «spesa per il personale scenderà  al di sotto del 10% del Pil», mentre «in termini reali, sta già  diminuendo dal 2011 ben oltre gli obiettivi fissati dal Six Pack».
Ma non basta, e il limite non si vede. Andando avanti così, tra promesse e salassi, come diceva ieri Giuseppe Roma, direttore del Censis, «l’asino con troppi pesi sulla schiena finirà  per schiantarsi».


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