Una grande muraglia ingabbia il micro blog

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Uno scandalo nato su internet, con le indiscrezioni sul presunto coinvolgimento della moglie di Bo Xilai nella morte di un cittadino britannico apparse sui micro blog cinesi (wei bo) giorni prima di diventare una notizia per l’agenzia Xinhua, proseguito sul web, con le autorità  che hanno permesso al popolo della rete (wang min) di dibattere dividendosi tra detrattori e sostenitori del leader epurato e – avverte Michael Anti – interamente pilotato attraverso il web, che Pechino utilizza come un medium tradizionale, come la CCTV, la televisione di Stato. 
Il «Bo Xilai drama», come lo hanno ribattezzato gli anglosassoni, costituisce un ennesimo, importante banco di prova per lo sviluppo e per il grado di libertà  dei nuovi media nella Repubblica popolare, che con oltre 530 milioni vanta il primato mondiale del numero di utenti, ma che sulla sua autostrada telematica esercita un rigido controllo grazie alla Grande muraglia informatica, alla censura, e alla sorveglianza continua dei dati in entrata e in uscita.
Più internet point che strade
Di informazione, nuove tecnologie e censura si sono trovati a discutere nei giorni scorsi a Pechino il giornalista e blogger Michael Anti (al secolo Jing Zhao), il direttore delle relazioni internazionali del portale Baidu Kaiser Kuo, e Jeremy Goldkorn, fondatore del sito danwei.com. Tra i protagonisti della rivoluzione digitale cinese, Kaiser sottolinea gli sforzi del governo per potenziare le infrastrutture di informatizzazione. «Mi è capitato di trovarmi in molte città  in cui di strade degne di questo nome ce n’erano al massimo un paio – racconta Kaiser, che è anche scrittore, musicista e giornalista freelance – mentre spiccavano sempre quattro/cinque giganteschi internet point affollati di giovani». 
Lo sviluppo del web ha rappresentato uno dei fattori principali del progresso economico del Paese negli ultimi 12 anni, basti pensare che Baidu e Tencent figurano tra le prime cinque aziende di internet più ricche del mondo. Il ruolo giocato dalla rete nella crescita del pil è innegabile e contribuisce a far passare in secondo piano l’incremento di controlli e della censura partito dalla rivolta dei tibetani del 2008, proseguito con quella dei musulmani uiguri l’anno successivo e giustificato, nel 2011, dal pericolo del diffondersi nella Repubblica popolare di moti ispirati alle cosiddette “primavere arabe”. 
Secondo Kaiser «bisogna considerare che se da un lato nel Paese assistiamo alla soppressione del dissenso, a quest’aumento dei controlli, dall’altro negli ultimi anni internet si è sviluppata come uno spazio collettivo riconosciuto praticamente da tutti». «È impressionante – sostiene Kaiser -, perché nella storia della Cina non c’era mai stato un momento in cui si era prodotto un simile impatto sulla sfera pubblica. Per molti aspetti ora internet sta guidando l’intero dibattito della Nazione: sui temi sociali, culturali e certamente anche politici. «Qui da noi ci si sente wang min, cittadini piuttosto che semplici utenti di internet, soggetti con un peso politico mai avuto prima». 
Superare le frontiere nazionali e unire i popoli? Pur evidenziando quella che definisce «l’ambivalenza» dell’internet cinese, Kaiser ammette che chi come lui ne ha seguito l’evoluzione fin dall’inizio, è approdato dall’«ottimismo tecno-utopico della fine degli anni Novanta al pessimismo attuale».
La fine della tecno-utopia
Ma come è avvenuto il passaggio alla disillusione attuale, subentrata in questa fase caratterizzata da un tentativo di controllo totale da parte delle autorità ? Secondo Jeremy Goldkorn, studioso del web cinese dal 2003, tutto nasce nel 2009, anno al quale il fondatore del sito danwei.com fa risalire la “fase 2” dei micro blog cinesi. Goldkorn ricorda una comunità  di piccoli blog critici delle politiche del governo e decine di utenti twitter (allora ancora utilizzabile senza bisogno di costosi espedienti tecnologici) molto coraggiosi, che però vengono messi a tacere immediatamente dopo la sanguinosa sommossa del 5 luglio nello Xinjiang. A quel punto Sina corporation, che lancia i suoi wei bo il mese successivo, si accaparra l’intero mercato, e i blogger vengono rinchiusi nella gabbia di una multinazionale quotata al Nasdaq di New York. 
In Cina dal 1995, Goldkorn è convinto che «c’è una campagna per imprigionare internet ma allo stesso tempo c’è un gran caos creativo».
Le notizie? Solo a chi le merita
L’annuncio dell’epurazione di Bo Xilai e dell’inchiesta per omicidio nei confronti di Gu Kailai, la sua consorte, è stata data dalla CCTV l’11 aprile, quando in Cina erano passate le 23. Secondo Michael Anti, il modo in cui all’interno di questo intrigo per il potere alla vigilia del 18° congresso del Partito si stanno alternando informazioni e indiscrezioni risponde a uno schema preciso e collaudato. «All’inizio bisogna limitare l’impatto di una notizia simile – spiega l’accanito sostenitore della libertà  di stampa -. Anzitutto devono esserne informati i quadri più importanti nelle università  e nell’apparato burocratico, in ogni città ». 
Per Anti è dal 1941 a Yan’an – la capitale rossa della Rivoluzione – che la propaganda del Pcc funziona così, secondo i dettami di Mao Tse-tung: i leader del Partito hanno diritto alle informazioni, le masse popolari alla propaganda. 
«La moglie di un principino – di un leader comunista figlio di un eroe della rivoluzione del 1949 – ha ucciso un cittadino britannico». Poco più di un mese fa, subito dopo che l’ex capo della polizia di Chongqing si era rifugiato nel consolato statunitense a Chengdu, questa indiscrezione circolava già  sui wei bo. 
A Pechino, Shanghai e Guangzhou qualcuno aveva ricevuto un sms proprio dal cellulare del super poliziotto e aveva diffuso le accuse contro Bo attraverso i wei bo. Dopo un po’ ne avevano riferito anche i grandi media stranieri, che setacciano quotidianamente i micro blog. Ma come c’è finita quella voce in rete se, come rivela Anti, quando è partito il messaggio, il telefono dell’agente Wang Lijun – in stato d’arresto – non poteva più essere nelle sue mani?
Anti cita lo scontro tra due treni di un anno fa a Wenzhou e il «Bo Xilai drama» come esempi di come il governo utilizza i “social media” alla stregua della televisione di Stato, come un “central media”. Nei primi cinque giorni dopo il disastro, in rete ci furono 10 milioni di critiche contro il ministero delle ferrovie, come in democrazia. Poi, quando il premier Wen Jiabao arrivò a Wenzhou e tenne il suo discorso, tutto fu messo a tacere. Lo stesso schema si è ripetuto con Bo Xilai: dopo le indiscrezioni finite sui wei bo, è stato permesso a tutti di commentare.
«Ma è proprio questo il punto – sostiene Anti -: quando il governo vuole colpire funzionari o ministri corrotti, come nel caso delle ferrovie, o un principino, come Bo Xilai, spalanca intenzionalmente questa finestra di libertà . I netizen sono abituati alla censura e quando avvertono queste opportunità  gli vanno dietro, come un cane insegue una fetta di carne».
Ma – sottolinea l’attivista diventato famoso nel 2005, quando il suo blog fu oscurato da Microsoft – «mobilitare le masse contro qualcuno non ha nulla a che vedere con la trasparenza ma piuttosto con le tattiche usate da Mao durante la Rivoluzione culturale».
I «wei bo» come il «Times»
Nelle lotte intestine al Pcc oggi i wei bo assolverebbero insomma la funzione che cento anni fa aveva il solo Times di Londra e in seguito hanno assunto i “big leak five” (Washington Post, New York Times, Reuters, Financial Times e Wall Street Journal). Col vantaggio che per far trapelare una notizia attraverso i micro blog non c’è bisogno di incontri segreti con reporter occidentali: l’élite politica, economica e finanziaria – presente e attiva su questi nuovi media – si raggiunge in un istante, basta un click.
Secondo Anti il paragone con gli Stati Uniti, dove la blogosfera nasce “alternativa”, mette in luce la diversità  della Cina, dove invece è mainstream dal primo momento. «Oggi l’80% dei giornalisti viene reclutato non nei college o in scuole specialistiche, ma sui blog – continua Anti, che ha lavorato anche per il New York Times e il Washington Post -. Wang Chen, il capo dell’ufficio governativo che a Pechino si occupa di internet, l’anno scorso ha dichiarato che i micro blog rappresentano il campo di battaglia dell’opinione pubblica e che il governo deve occuparli. Occupare, non chiudere, questa è la politica di internet del governo: se non posso colpirti, entro a far parte del tuo esercito». 
E allora, Anti lo dice senza timore di essere smentito, scordiamoci una “primavera araba” nell’internet cinese, perché «non è possibile utilizzare i micro blog per mobilitare un movimento sociale. Se ad esempio inserisci la parola “riunione” sul tuo wei bo, attraverso un motore di ricerca i controllori avvertiranno immediatamente le autorità  locali e la polizia sarà  subito spedita nel luogo di quell’appuntamento». Anti la chiama Censura 2.0.


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