Dalla Betlemme leghista alla Sicilia ribelle Mappa delle batoste nella «nuova» Italia

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È crollata anche Betlemme. Tutto poteva immaginare Umberto Bossi, fino a un mese fa, meno che smottasse perfino la Lega di Cassano Magnago, il suo paese natale. Cassano era da vent’anni in pugno al Carroccio, fiero d’essere appunto la «Betlemme leghista». E meno male che il trionfo a Verona di Flavio Tosi, il ribelle minacciato di espulsione, ha attutito la botta. Sennò… Peggio ancora è andata al Pdl. Un tracollo cui il Cavaliere ha assistito da Mosca, il più lontano possibile: occhio non vede, cuore non duole.
L’unico a stappare una bottiglia di spumante, nei dintorni di quello che era il «partito più amato dagli italiani», è stato all’apertura delle urne Luigi Fiorucci, rieletto trionfalmente sindaco di Latera, un centro della Tuscia in provincia di Viterbo. Ovvio: la sua era l’unica lista in lizza. Ce ne fosse stata un’altra, chissà , sarebbe riuscito a perdere anche lui.
Perché questo è il dato più drammatico che esce dalle urne nel pomeriggio più brutto di Angelino Alfano. Salvo qualche roccaforte qua e là , quello che ancora è il partito di maggioranza relativa in Parlamento esce travolto un po’ dappertutto. Perde male dove aveva messo la faccia di una specie di «simil-Monti», come Luigi Castelletti, che pure era riuscito nel miracolo (ma per odio verso Tosi) di mettere insieme a Verona i berlusconiani e i finiani. Perde male dove aveva tentato di intercettare i sentimenti ostili alla Casta lanciando un «debuttante di successo» come il giovanissimo presidente del Coni siciliano Massimo Costa a Palermo, schiantato dal trionfo di quel vecchio affabulatore di Leoluca Orlando, che fece per la prima volta il sindaco a Palermo nel lontano 1985. Una scelta liquidata da Ignazio La Russa con un paio di battute omicide: «Non basta avere un bel faccino. E poi quel cognome, Costa, non era proprio beneaugurante, di questi tempi». 
E il Pdl perde ancora, almeno al primo turno, dove aveva puntato sull’«usato sicuro», come Piercarlo Fabbio che ad Alessandria (nel 2007 aveva stravinto con il 63%), non riesce a inerpicarsi neppure fino al 20. E straperde a L’Aquila, dove il cavallo pidiellino non riesce manco ad andare al ballottaggio nonostante qui il Cavaliere avesse gonfiato il petto: «Nessuno al mondo ha fatto il miracolo che abbiamo fatto noi in Abruzzo!». Non bastasse, Angelino vive l’incubo di una disfatta, nella Sicilia un tempo così generosa verso la destra da regalarle nel 2001 il famoso cappotto del 61-0, perfino a casa sua, ad Agrigento. Deciso a distruggere Marco Zambuto, il giovane sindaco uscente che già  aveva battuto il candidato «alfaneo» cinque anni fa e che dopo un flirt con Berlusconi era tornato a rinfacciargli di avere tradito la città  natale, il segretario pidiellino credeva di avere trovato l’uomo giusto in Totò «Pilu Rossu» Pennica che metteva insieme tutto: una faccia abbastanza nuova, il sostegno di una lista civica e insieme l’ammiccamento a chi rimpiange Calogero Mannino (di chi era il segretario) e Totò Cuffaro, che gli fece da testimone di nozze. Macché: appena aprono le urne chi appare trionfante? L’odiato Zambuto. 
«Queste elezioni non contano, era in ballo il sindaco di Pizzighettone», disse Berlusconi facendo spallucce per le sconfitte alle amministrative del 1995. «Certo, abbiamo perso Roma, Milano, Napoli, Venezia, Palermo… Ma ci sono anche segnali incoraggianti. Penso Gerace, Pizzo Calabro, Praia a Mare…», rassicurò il diccì Vito Napoli dopo lo spiaggiamento della Balena Bianca del 1993. È dura, per quanto Indro Montanelli ricordasse «la sconfitta è il blasone delle anime ben nate», ammettere le batoste. Tanto più per chi è stato abituato a vincere, come il Cavaliere, che sosteneva d’avere «un talento biologico per la vittoria». 
Ma certo, se Pier Luigi Bersani ha buone ragioni per essere soddisfatto, al di là  delle vittorie a Palermo e a Genova di candidati che non si era scelto lui (anzi) non si può dire lo stesso per gli altri partiti principali. Male il Terzo Polo, al punto che Pier Ferdinando Casini, generalmente assai loquace, se ne sta zitto fino al sera. Malissimo ciò che resta del Pdl, con Berlusconi che mentre il suo partito frana ovunque, fa sapere da Mosca, vanitosetto, d’essere sempre caro a Vladimir Putin: «È stata una cerimonia solenne con tremila invitati: a me è stato dato il posto d’onore, ero in prima fila dietro alle first lady». 
Quanto alla Lega Nord, la vittoria a valanga di Tosi, a dispetto di tutti gli avversari e tutte le polemiche sulla sua idea «democristiana» del potere spinta fino a dichiarare una strabiliante simpatia per Mariano Rumor, tra i padri delle pensioni-baby, è provvidenziale per mettere in secondo piano un panorama qua e là  catastrofico. Batoste a Monza, dove il partito aveva «trasferito» per pochi mesi, tra squilli di trombe padane, tre ministeri e dove il sindaco uscente Marco Mariani incassa un misero 10%. Batoste a Mozzo, il paese in provincia di Bergamo noto perché ospita la villa in cui Roberto Calderoli era arrivato a tenere anche alcuni animali feroci, incapaci di azzannare il candidato di una lista civica di centro sinistra che ha spazzato via il governo leghista. Batoste perfino nel paese in cui ha sede, nella villa Da Porto detta La Favorita, il cosiddetto «Parlamento Padano». Cioè a Sarego, in provincia di Vicenza. Zone di concerie, di disobbedienza fiscale, di sentimenti contro lo Stato. Pareva imprendibile, Sarego: da ieri è il primo centro italiano con un sindaco, Roberto Castiglion, del Movimento 5 Stelle. Il quale ha fatto tutta la campagna elettorale battendo e ribattendo su alcuni punti: «Prima di tutto la trasparenza e il contatto diretto con i cittadini. Poi raccolta differenziata spinta al massimo, promozione dei colli Berici, piste ciclabili, incentivi per portare fuori dai centri abitati gli insediamenti industriali». Niente di populista, qualunquista, demagogico, nel suo programma? Macché… E mentre gli elettori della Sardegna travolgono con uno schiacciante 97% le nuove province volute qualche anno fa per raddoppiare quelle che già  c’erano (per l’abolizione delle quali sarebbe il 67% dei votanti), monta da un capo all’altro della penisola l’ondata sollevata dalle violente filippiche di Beppe Grillo. Qui va incredibilmente al ballottaggio, lì spazza via vecchi assessori incartapecoriti, lì prende il triplo dei voti del Pdl… E tutti a dire: «Ma come?» E tutti a gridare: «L’antipolitica! L’antipolitica!» E nessuno che ricordi che il trionfatore di ieri, l’animatore del Movimento 5 Stelle che qualcuno chiamò «un istrione della Suburra», tentò quasi cinque anni fa, con cristallina procedura democratica, di utilizzare l’articolo 71 della Costituzione presentando tre proposte di legge di iniziativa popolare. Bastavano 50mila firme: ne raccolse sette volte di più, 350 mila, e le consegnò al Senato. Da allora, quanti invitano oggi Beppe Grillo a non essere qualunquista e ad avere rispetto di «questa» politica, quelle proposte non ne hanno mai neppure esaminate.


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