Embrioni di élite sui banchi di liceo

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A occuparsi del carattere specifico, in qualche modo della «personalità », simbolica e concretamente esercitata, di un singolo istituto scolastico nel corso della sua vicenda storica, sono stati finora soprattutto gli storici della scuola e dell’educazione, con alcune benvenute eccezioni: si pensi a Mario Isnenghi, che del resto i luoghi e i modi della «educazione dell’italiano» ha frequentato spesso. In un archivio scolastico relazioni di insegnanti e dirigenti, registri di classe e qualche volta campioni di lavori degli alunni permettono agli storici delle istituzioni educative di penetrare nella pratica e nel vissuto dei processi di acculturazione andando oltre gli enunciati del pensiero pedagogico e le prescrizioni della legislazione scolastica. L’archivio di un liceo, luogo di formazione delle élites e del ceto medio, offre di più: vi si può leggere la storia culturale e politica della classe dirigente, colta nell’atto di modellare i suoi rampolli. È l’intento di Salvatore Cingari, Un’ideologia per il ceto dirigente dell’Italia unita. Pensiero e politica al liceo Dante di Firenze (1853-1945), (Olschki 2012, pp. 500, euro 42) che, storico del pensiero politico, incontra felicemente i percorsi della storia dell’educazione. Il libro si propone di «concorrere allo studio dell’ideologia della classe dirigente dal punto di vista della storia della produzione e trasmissione della cultura e delle idee politiche», avvalendosi del ricchissimo materiale conservato nell’archivio del primo liceo statale fiorentino, dalla sua fondazione, nella seconda restaurazione granducale dopo il Quarantotto, fino al termine della Seconda guerra mondiale. Un lavoro di dimensioni imponenti, dove i documenti d’archivio vengono integrati con la produzione culturale degli intellettuali passati nelle aule del Dante. Personaggi non da poco: al Dante tra gli altri insegnarono Giuseppe Rigutini, Pietro Siciliani, Giacomo Barzellotti, Isidoro Del Lungo, Raffaello Fornaciari, Augusto Alfani. 
Cingari documenta il passaggio dal riformismo moderato di impronta cattolica, ispiratore della fondazione della scuola in età  preunitaria, al conciliatorismo conservatore che, dopo una breve parentesi laicista al momento dell’unificazione, dominò il clima dei primi decenni unitari, senza mai tradire un patriottismo monarchico e paolotto sfociato verso fine secolo nel nazionalismo. 
L’evolversi dell’orientamento ideologico del corpo docente si riflette nel governo degli studenti: tra il ’59 e il ’61 venne incoraggiata la loro partecipazione agli eventi politici, poi le classi furono ricondotte alla «serietà  degli studi»: nessun interesse ideologico doveva turbare le aule dove si amministrava il sapere, e nemmeno fuori della scuola gli alunni potevano mischiarsi con la politica, tanto più se questa si colorava di tinte democratiche. 
Uno storico dell’educazione avrebbe potuto desiderare un più ampio uso della preziosa quanto rara documentazione costituita dai componimenti degli alunni, letti sullo sfondo delle relazioni dei professori e della loro produzione culturale, per verificare quanto fosse esplicita nell’attività  didattica la volontà  di produrre negli allievi una omologazione ai valori predominanti nel Liceo, e quanto, almeno nei limiti di lavori condizionati da un conformismo di comodo, raggiungeva i suoi scopi. Come osserva l’autore, un esame dei libri di testo usati nella scuola potrebbe fornire in futuro un contributo significativo.
Intanto, l’educazione fisica, che verso fine secolo e poi soprattutto nel clima della guerra di Libia si identifica con l’educazione militare, dice molto sull’affermarsi del nazionalismo, al quale i professori del Dante sembrano aderire senza riserve e che all’approssimarsi della grande guerra trapassa senza scosse nell’interventismo: ora gli alunni sembrano aver ritrovato il diritto di far sentire la loro voce, naturalmente dalla parte «giusta». Poi la scuola avrà  occasione di celebrare i suoi caduti. 
La retorica della Patria in guerra è già  in nuce quella del fascismo, così come la politica della razza ha nella tradizione culturale della scuola radici più antiche non solo delle leggi razziali ma dello stesso fascismo: il consenso del corpo docente del Dante, al quale poche figure si sottraggono, non era «organico» ma «consensuale», nasceva da convergenza di intenti più che da partecipazione militante. I documenti consentono all’autore di mettere a fuoco l’organizzazione e la ricezione della trasmissione ideologica, in parte interna alla didattica in parte organizzata dal Regime, dando concretezza di analisi all’ipotesi di lavoro. Tra gli alunni il diario di Marcella Olschki testimonia, accanto al suo personale dissenso, una diffusa adesione, che ebbe eccezioni di spicco: Spini e Fortini, e, nella generazione successiva, Andrea Devoto, Roberto Abbondanza. Alcuni entrarono poi in contatto con gruppi partigiani.
Rimangono inquietanti interrogativi sul cruciale passaggio al dopoguerra, interrogativi che le riflessioni sui casi del preside trasformista e del professore sottoposto a epurazione, e forse non più di altri compromesso, non possono sciogliere. In che modo ci si proponeva come educatori in un mondo dai valori radicalmente mutati? Gli studenti del liceo sanno e giudicano e le materie insegnate comportano scelte ideologiche. Quei professori prepararono una progenie di adattati al trasformismo? Tacquero rimanendo fedeli a ideali sepolti? La scuola secondaria non aveva beneficiato dei programmi di Lombardo Radice, velo utile ai maestri per sentirsi almeno fedeli a un lavoro ben fatto.


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