Il peso della rinuncia

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Le motivazioni di un atto simile sono sepolte negli abissi dell’anima, e non è possibile né pietoso indagare in questa direzione privatissima. Ma quello del Cev – questo era il suo soprannome – è anche un suicidio “politico” in senso lato. Intendiamoci: non è verosimile pensare a un atto di protesta contro la politica, contro un partito che lo avrebbe sacrificato, o fatto desistere dalla corsa a sindaco. Quando Cevenini lasciò, anzi, fu un brutto colpo per il Pd bolognese, che vi vedeva un vincitore sicurissimo. La politicità  di questa morte – segnalata anche dal luogo del suicidio, l’assemblea regionale emiliana – sta altrove. 
Sta in un’ansia non appagata, in un’ambizione generosa di servizio alla collettività  che non ha potuto trovare soddisfazione; dunque, in un’idea alta di politica, un’idea assorbente e motivante. E al tempo stesso un’idea non fanatica, ferma ma non estremista: quella di Cevenini era una politica mite, dialogante, solare, gioiosa. Certo non la politica dello scontro, dell’urlo, dell’avidità , della faccenderia, del cinismo. Quando quest’idea si è rivelata inattingibile – quando il politico si è trovato senza politica – l’uomo si è sentito inutile; non potendosi esprimere come sindaco si è depresso, e non si è più ripreso. E forse il dolore per questa percezione di emarginazione si è acuito proprio nella fase elettorale di questi giorni, davanti alla lotta di altri, all’entusiasmo di altri, alle vittorie altrui. Un mondo politico che era per lui un mondo di vita, di dialogo, di solidarietà , di partecipazione, e anche di affettività , da cui si è sentito tagliato fuori, escluso per sempre. Oppure, chissà , Cevenini si è sentito escluso dalla politica in un senso più radicale e generale: si è sentito fuori posto nella brutta politica di questi giorni, nella tristezza di un’Italia senza bussola, alle prese con una crisi feroce, che ha mortalmente aggravato la sua tristezza. 
Quindi, non è solo l’eccesso di politica a portare la morte – secondo uno schema classico, ben noto e collaudato -; non solo dalla violenza del “politico” è minacciata la vita, ma anche dalla mancanza di politica. Morire di politica, per la sua lontananza struggente, o per l’improvvisa estraneità  rispetto a essa; per il massimo di inutilità , attribuita a se stessi, o per il massimo di disperazione rispetto all’ideale di una vita. Un po’ come morire per amore; come annullarsi per una delusione; o come smettere di credere nell’amore, per disperazione. 
Non c’è, in nessuna di queste ipotesi, la politica-Moloch che chiede sacrifici umani; né siamo di fronte al partito-mostro che dispone a piacimento della vita dei suoi militanti; e non c’è neppure una generica tragedia dell’indifferenza (altrui) e della solitudine (propria). C’è semmai una dimostrazione – estrema, quasi per assurdo – che l’uomo è animale politico, che senza il legame sociale, senza la proiezione verso gli altri, senza la dimensione della relazione, senza potersi e sapersi far carico di un destino condiviso, gli esseri umani sono deprivati di una loro componente fondamentale. In alcuni – più sensibili, più dedicati – questa percezione è vitale; e la sua mancanza è mortale. In alcuni – in coloro per cui la politica è vita – il sentirsi fuori della politica, incapaci di politica, respinti dalla politica, genera una radicale perdita di motivazioni, un chiamarsi fuori definitivo. 
La mancanza di politica può prendere l’aspetto di un amore non corrisposto, di una passione inappagata, della fine di un’illusione, ma anche di una mortale trascuratezza. Si muore anche di noncuranza della politica, di inefficienza della politica. I suicidi “sociali” dell’Italia in crisi non sono colpa diretta di questo o di quel governo, certamente. Eppure, sono il segno che il tessuto del Paese – non solo quello economico ma quello civile, quello del destino comune, dell’orizzonte condiviso, della politica nel senso pieno, originario – si lacera ogni giorno un po’; che le persone in difficoltà  non si sentono, perché di fatto non sono, inserite in un contesto di senso; che ciascuno è solo con la propria disgrazia. Che la politica – che dovrebbe essere lo spazio in cui una società  prende coscienza di sé, e si dà  consapevolmente dei fini collettivi – è venuta meno, ha trascurato il proprio fine umano, umanistico. E, ancora una volta, chi è caduto fuori sempre più spesso si chiama fuori definitivamente.
Fuori dalla politica c’è cattiva vita. A volte c’è la morte. Che almeno a capire questo servano – se a qualcosa serve la morte – i troppi suicidi dell’Italia fragile e disorientata d’oggi. A ricordare a tutti che la politica può anche essere un amore, una risorsa umana, una rete di solidarietà , un orizzonte di civiltà . Che è un bisogno primario dell’uomo, che non può restare a lungo inappagato. Che la salvezza dei singoli e della società  non sta nell’antipolitica ma, ancora una volta, nella politica.


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